Chad
Semplicemente non era preparato: nei 22 anni passati a camminare le strade del mondo niente lo aveva preparato al puro e semplice dolore fisico. Era bastato un bicchiere di troppo, il piede appesantito dall'ora tarda, forse una pozzanghera, di quelle che per tutta la primavera fiorivano sull'asfalto. L'auto aveva sbandato, lei si era trovata in mezzo. Per un poco aveva tardato a riconoscere le grida: che razza di animale poteva ruggire in tale modo? Che crudeltà potevano avergli inferto? Invece era lui. Alla fine se ne era reso conto: non era preparato al puro e semplice dolore fisico.
Chad fino a quel giorno si era mosso in una sorta di aura di invulnerabilità, o almeno aveva dato questa impressione. Il bambino grande e grosso che era stato non aveva mai subito le violenze dei compagni, nemmeno di quelli più grandi di lui. Dotato negli sport, era più facile fosse lui a fare male a qualcuno che non viceversa, nonostante la delicatezza con cui cercava di muovere la sua mole. Il rugby era parsa la scelta giusta, ai suoi genitori, già alle scuole elementari, quando il loro figliolo le suonava sui campi a quelli delle medie.
Gli allenatori, nel tempo, ci avevano provato: volevano tramutare il sorriso nei suoi occhi in uno sguardo che incutesse terrore negli avversari. Gli sarebbe bastata anche fosse solo finzione, ma non c'era niente per cui Chad non sapesse sorridere, sul campo. Era temuto, perché correva di più, placcava di più, spingeva di più. In un paio di occasioni qualcuno ci aveva provato a fargli male, riuscendo solo a rischiare infortuni più o meno gravi.
Chad, ovviamente, non era perfetto. Essendo quel che era nello sport, non poteva pretendere di essere anche tagliato per lo studio. Così, mentre trascinava i suoi compagni verso l'area di meta, aveva bisogno che qualcuno lo trascinasse a scuola, e gli ficcasse in zucca quel tanto che bastava a superare gli anni. Sua madre scuoteva la testa; suo padre era segretamente compiaciuto del suo campione.
Ai tempi del liceo, ecco i primi soldi precoci. Chad e la famiglia si trasferirono per seguire la carriera del piccolo. La nuova scuola era più facile, la società aveva permesso a suo padre di trasferirsi a lavorare in un'altra filiale della stessa banca nella nuova città, ma a Chad mancava il suo cuginetto Max: per lui era un poco come un fratello minore, e lo proteggeva dove l'aria dell'altro lo metteva nei pasticci.
Decise di non pensarci, e si gettò a capofitto nello sport. In un paio d'anni, fu già tempo di prima squadra: un esordio coi fiocchi, coronato da una meta. Gli avversari sarebbero stati facilmente asfaltati anche senza di lui, ma era cominciato il suo cammino tra i big.
Da lì in avanti, poco da dire: giocava bene, poi un po' meglio, poi meglio ancora, e sempre meglio. Gli anni andavano avanti così. Per quel poco che la stampa si interessava al rugby, tendeva ad interessarsi a lui, che pian piano diventava una sorta di personificazione mediatica di quel gioco. A parte questo, niente deviò di un grado la sua traiettoria da stella.
E ciononostante, eccolo, quella fatidica sera, impreparato. E dire che col suo gioco, di botte ne aveva prese, si direbbe, da sapere cosa aspettarsi. Nessun infortunio grave in carriera, ma comunque...
Lì, nella sua vecchia città, che chiamava da sempre casa. Un birra con i vecchi amici. Poi un'altra. Max sembrava strano, assente: da solo in disparte bofonchiava di fate, serpenti, e di quella ragazza che gli piaceva da un po'. Ancora una birra per tirare su Max, poi una per brindare al fallimento della prima. Piano piano la compagnia si disperse, ciascuno trascinato sulla strada dalla vita e dal giorno che sarebbe venuto.
Lui e Max, al bancone, ultimi in quel pub, bevevano la loro birra in silenzio: la musica e il vociare della serata avevano lasciato il posto allo strofinare del panno sui tavoli; le gran pacche sulle spalle e le grasse risate erano rimpiazzate dal fruscio della scopa.
Il cuginetto ancora non aveva tirato fuori il casino che gli si ingarbugliava in testa: non è mica che aveva cominciato a darsi a quella roba che prima si limitava a dare? Ma no, non era il tipo. Eppure, le fate...
“Scusa per la serataccia che ti sto facendo, cugino...”
“Figurati. Il buon umore l'han portato gli altri. Tu vuoi spiegarmi che ti piglia?”
Max si limitò a sbuffare, emettendo un poco di quel vuoto di cui sentiva piene tutte le sue interiora, ma tornando a berselo l'istante dopo dal boccale.
“Sempre la solita ragazza? Come si chiama? Marlene, vero? Qualcosa del genere, mi pare...”
“Lei, sempre lei, non solo lei... La situazione è un bel casino, di certo. Oppure sono semplicemente impazzito del tutto.”
Chad fece segno al proprietario se poteva andare dietro al bancone a servirsi un bicchierino. Cliente di lunga data, gli fu concesso il privilegio. Mentre sceglieva il whisky e puliva due bicchieri, continuava a rivolgersi all'altro:
“Ma vuoi spiegarti cazzo?”
“Se ti dicessi che il diavolo mi ha chiesto di uccidere una persona, ma non ho potuto farlo perché ho visto delle fate danzare e sono rimasto illuminato, mio malgrado?”
“Mi riprenderei il bicchiere che ti ho appena versato.”
“Scusa, devo proprio andare.”
Chad rimase senza capire a guardare l'altro alzarsi veloce e prendere la porta.
“Che diavolo...?”
Bevve anche il bicchiere del cugino, brindando allo spazio dove le sue spalle avevano attraversato l'uscio, poi diede una mano a riordinare il locale, nonostante venisse supplicato di lasciar perdere.
Che ore saranno state, quando Chad si scoprì impreparato? Alle tre si era bevuto un ultimo bicchierino per salutare il pub, rimesso in ordine. Poi si era messo in marcia verso la sua vecchia casa, pochi isolati più in là, chiedendosi dove andasse a finire tutto l'alcol che trincava ogni volta, senza riuscire a farsi neppure barcollare. Se ne stava sulle sue, nascosto tra i suoi pensieri, cercando di interpretare Max; intanto i suoi occhi sorridevano tutto intorno, riconoscendo ogni dettaglio tra quelli visti in passato: le crepe nei marciapiedi, il gatto rachitico di quella vecchia che lo spaventava da bambino, l'ombra bassa della nebbia che gli correva tra i piedi cercando di farlo inciampare.
Improvvisamente l'innominabile: come un'apparizione, una ragazza che non aveva mai visto, che non era nemmeno mai riuscito a sognare, o non avrebbe mai voluto svegliarsi. La vedeva, solo pochi passi più avanti sul marciapiede, e stava per spalancare la bocca, sbavare magari. Gli camminava incontro; parve notarlo; sorrise. Ecco, finalmente era felice: ricambiò, e voleva dire qualcosa, mentre i loro passi tardi li portavano a portata di voce, poi di sussurro, poi di mano.
Ma il rumore! Non se lo aspettava, non c'era tempo di pensare: era il genere di situazione per cui Chad era nato.
Come fosse un fiore, sollevò la ragazza tra le mani. L'auto sollevò sé stessa, appena un poco, con le gomme che usavano il bordo del marciapiede come un trampolino. Il paraurti centrò Chad proprio sopra il ginocchio: solo il ragazzo sentì il crack di ossa e articolazioni, e solo perché proveniva da dentro di lui. Per la ragazza, per il conducente ubriaco, per gli abitanti delle palazzine, ci fu solo il ruggito di un animale ferito, quell'ululato che Chad si rese conto di dover reclamare come suo.
Racconto di fate sul cemento (4)
Author: Matteo Piovanelli / Etichette: Fate sul cemento
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