Pep

Author: Jager_Master / Etichette:

Kenyon riappese la cornetta del citofono, dopodiché andò a spegnere la tv che in quell’istante stava trasmettendo il meteo serale. Prima di premere il tasto off cliccò rapidamente su 5/6 tasti di canali in fretta e furia, giusto per uno zapping compulsivo che era solo istinto di un vizio comune; le immagini si mossero rapide e senza un significato prima che spegnesse definitivamente. C’era altro a cui pensare.
Controllò attorno a sé che il mini appartamento fosse in ordine...o meglio: controllò che in giro non ci fossero aggeggi compromettenti o cose inutili. Non che non si fidasse di Pep, ma sappiamo tutti come sono i messicani, curiosi ed impiccioni.
Sì, decise che la sala era in un accettabile ordine, ed a passo lento andò solamente a chiudere la finestra che dava sul complesso residenziale. L’aria fresca della sera andava bene solo per una sigaretta, e già se n’era fumata una poco prima, mentre attendeva l’arrivo di Pep. Anzi, nemmeno se l’era finita perché la spense sul davanzale quando lo vide arrivare e andò subito ad aprirgli col citofono (Pep non aveva la combinazione, non essendo inquilino del complesso Hitachi).
Prima di staccarsi dal davanzale fece solo in tempo a vedere il ragazzino del piano di sotto che arrivava a razzo con il suo trabiccolo, infilandosi nel portico sotto casa assieme a Pep. Ma non era importante che il suo complice fosse stato visto da qualcuno: primo perché non era riconducibile a nessuno e a niente, e secondo perché il ragazzino lo conosceva bene, ed era uno che stava con la bocchia chiusa. Tutti lo erano, all’Hitachi. Ad ogni modo nessuno lo avrebbe visto uscire.

Tre tocchi alla porta e Kenyon aprì a Pep senza nemmeno guardare dallo spioncino. Basso e coperto da un giubbotto nero, Pablo Pespe era un messicano di circa un metro e settanta, poco meno. Rasato alla meno peggio, sembrava appena uscito da un film di Zorro, se non fosse che alla sua epoca Zorro non aveva giubbotti.
Entrò senza dire una parola, salutò solo con un cenno del capo, e taciturno si sedette sul divano centrale. Buttò un occhio in giro, mentre Kenyon chiudeva a doppia mandata la porta usando anche il chiavistello superiore. La casa era ordinata e abbastanza grande per essere di uno Yankee squattrinato e di bassa levatura sociale, ma Kanyon sapeva il fatto suo e la cosa non stupì più di tanto Pep, che dimenticò in fretta l’abitazione e si concentrò sul complice.

“Ti ha visto nessuno?”
“No, solo un ragazzo con la bici. E’ entrato anche lui nel palazzo”
“Lui è ok, come un pò tutti qua dentro”
“E allora perchè chiedi?”
“Così. Meglio essere sicuri”
“Se lo dici tu. Comunque, parliamo di cose serie: spiegami tutto”
“Una cosa alla volta. Vuoi da bere?”
"Che hai?”
“Credo solo birra” e andò verso il minifrigo. Lo aprì e lo sportello regalò un pò di luce all’appartamento buio. Kenyon ci rovistò dentro con la testa e ne uscì con due lattine da 33, della solita Krup Beer, una sottomarca della peggio specie. Ma andava bene, almeno era fresca. Ne lanciò una a Pep che l'aprì con gesto secco delle dita.
Trangugiarono un lungo sorso a testa, e senza togliere lo sguardo dal messicano Kenyon aggiunse: “E’ un gioco da ragazzi, almeno per te”.
“Prima voglio sapere tutto, e poi deciderò. Non è per sfiducia, hombre, ma nel mio lavoro è meglio un'informazione in più che una in meno”.
Kenyon sorrise. Sapeva che il messicano aveva ragione, ma si divertiva a vederlo guardingo e professionale sull’argomento. A vedere quel piccolo messicano non gli avresti dato un dollaro, e invece. E la cosa lo divertiva abbastanza.
Smise comunque di sorridere e si sedette di fronte a Pep.
“Va bene, stammi a sentire. Si tratta di questo tizio”
Dalla tasca tirò fuori una serie di polaroid in bianco e nero, tutte riguardanti un uomo di razza bianca, altezza media, pettinato con la figa. Nelle foto saliva o scendeva da un’auto, oppure sedeva in un bar o stava ad una fermata dell’autobus. Evidentemente Kenyon lo aveva pedinato per diverso tempo perché in alcune era avvolto in un cappotto, in altre era in polo e calzoncini. Si chiese da quanto tempo gli stava alle calcagna, ma non proferì parola, annuendo solo col capo. Era importante ascoltare bene, riordinare le idee e chiedere alla fine.
Kenyon continuò. “34 anni, impiegato della Gate Insurance Corporation, convivente, niente figli. Abita a una ventina di Km da qui, ti darò poi indirizzi e numeri utili”.
Pep continuò ad annuire, osservando meccanicamente le foto, alcune anche più volte, ritornandoci e confrontandole all’americana, come fossero monetine.
Kenyon si appoggiò al cuscino e proseguì nella sua presentazione dell’obiettivo. “Ha passato la sua vita in quella Compagnia, sempre la solita routine, sempre i soliti clienti, poi casa tv e poco altro. Un uomo di merda. Non che ce ne freghi granché ma da qualche tempo ha deciso che la sua squallida vita può cambiare e ha ficcato il naso dove era meglio non mettercelo. Non so se rendo l’idea”
Pep alzò per la prima volta lo sguardo da quando era iniziata la spiegazione. Incrociò gli occhi di Kenyon, che dietro la lattina che sorseggiava erano immobili e più neri del normale.
“Si, capisco” disse, e ritornò alle fotografie. Girò la lampada da tavolo verso di sé, e premendo col dito sparò il fascio di luce verso il grembo, dove teneva le polaroid. Ora la sua concentrazione era tutta sul volto dell’uomo.
“Che te ne pare?”
“Rischi?”
“Praticamente zero, a parte vicini e parenti, è una persona neutra. Neanche i suoi clienti gli dedicano più di un saluto”
“Allora può sparire”
Kenyon sorrise, Pep si era convinto.
“Quanto tempo ho?” chiese il messicano.
La sala si fece più buia ancora, e l’aria dell’appartamento spirò da diversi pertugi facendo scricchiolare ante e mobilia.
“Una settimana. Fatti i tuoi giri, e poi chiudi la cosa. Lo sai che Lui non vuole attendere troppo”
L’aria era elettrica, frizzante. Ma paradossalmente calda.
Pep si passò la mano fra i nuovi capelli con la riga, accarezzandoseli in fare pensoso.
“Va bene” disse. Poi sorrise, raccolse la ventiquattrore che prima non aveva e si alzò, gustandosi il suo metro e ottanta d’altezza. Abituarsi ormai era cosa facile, tempo di scendere al primo piano e già sarebbe stato a suo agio. Dopo anni, questo lavoro era una seconda pelle. Letteralmente.
Si lisciò la pelle rasata di fresco, godendosi il preciso lavoro che solo un assicuratore abitudinario poteva aver fatto. Se ne rallegrò, gli piacevano i clienti puliti.
Andò alla porta, aprì il chiavistello. Poi si girò verso Kenyon.
“Una settimana”. Gli ricordò Ken, senza alzarsi dal divano. “Ah, Pep”.
“Si?” disse il messicano, con già la mano sulla maniglia.
“Stai perfettamente, così. Sei sempre il migliore”.
“Lo so”.
Aprì la porta ed uscì, senza salutare.

Kenyon rimase solo, a meditare su quello che era appena accaduto. Ormai la cosa non lo faceva ammattire come le prime volte, ma Pep gli dava comunque la pelle d’oca. Nel contempo si sentiva parte di un progetto immenso, importante ma intimorito. Intimorito da quelli come il messicano, ed il fatto che Pep fosse il migliore non lo metteva certo a proprio agio.
Finì in un solo sorso la lattina e la gettò nel lavello. Seduto sul divano non poté non pensare all’assicuratore, a quello che lo aspettava.
Strano cliente questa volta, un paradosso: un venditore che si trova ad affrontare una trattativa più grande di lui.

Come tutte le volte si ritrovò a pensare all’incontro fra Pep ed il cliente. Ci pensava ogni volta, ma non riusciva ad immedesimarsi in nessuna delle due parti, anche perché non sapeva bene come si sarebbe svolta la cosa. Nessuno partecipava mai, nessuno aveva mai visto Pep in azione.
Però sapeva.
Sapeva che avrebbe dato un braccio piuttosto che essere al posto di quell’uomo. Pep era famoso per non usare mezze misure, e sperò che l’assicuratore fosse accondiscendente.
Non lo fosse stato...beh.

Però lo avrebbe capito. D’altra parte, non è facile per nessuno incontrare Sé stessi.

Corporation

Author: Matteo Piovanelli / Etichette:

Un altro giorno:
“La nostra azienda” dice quello più vecchio, che sembra sempre sul punto di sbavare un poco e ha lo sguardo del predatore sessuale sotto dei capelli ingrigiti e diradati, “si occupa in poche parole di tutoring per specialisti del settore dell'intrattenimento, in particolare per i media classici come televisione e radio. Siamo degli agenti, se vuoi, ma i nostri compiti vanno oltre la cura dei contratti: forniamo il servizio di sicurezza, organizziamo la logistica, diamo insomma ogni tipo di supporto di cui i nostri clienti abbiano bisogno.”
Lei è dall'altra parte del tavolo. Trema e suda sotto la camicetta di seta. I boccoli di rame le cadono sugli occhi mentre fissa la bocca aperta di quello che parla, e tenta di gettare occhiate a quello più giovane, che finora non ha aperto bocca neppure per salutarla. Sta lì elegante all'inverosimile, coi capelli spettinati da poco da un parrucchiere omosessuale, la sedia un po' scostata indietro per lasciare la scena a quello più anziano, probabilmente tra i due più alto nelle gerarchie.
Quello intanto continua così: “E con noi lavorano professionisti in ogni campo: musica, televisione, cinema, teatro, arti visive, intrattenimento per adulti.” Pausa. Uno sguardo di vittoria rabbiosa. Lei non sa più contenersi e scappa fuori dalla porta.

Un'altra ora, prima:
Lei è in un bagno unisex. Lui ha chiuso la stanza e la guarda, e lei chiama cattiveria il suo sguardo, ma non sa come muoversi, si limita a tremare tra le mani di lui, e pensa che dovrebbe dibattersi e gridare, ma non sa come fare, e lui le dice che quello è il vero provino, non quello di prima, e la spinge in ginocchio, e si cala la zip dei pantaloni, le forza la testa. E lei piange, ma non si osa a singhiozzare.
Dopo, sempre quel giorno:
Ha corso e corso, senza sapere la strada, spalancando porte e gettandocisi attraverso. Nessuno ha dato la benché minima impressione di accorgersene o sembrare stranito. Ha corso e corso, finché è incappata in un'aula e c'era tutta sta gente ai banchi, come a scuola, ma tutti ben vestiti, e i cappotti appesi ordinati sui ganci lungo la parete con le finestre alte. L'han guardata, ma poi sono ritornati ai loro fogli e alle loro matite, senza fare un rumore. Che altro poteva fare se non cadere in un angolo e piangere, cercando di non disturbarli, e nascondersi sotto le mani e i ricci?

Poco prima:
A lui basta uno sguardo e l'altro sa che non tornerà a casa per cena sta sera, né l'indomani.
Non si sa quanto dopo (anche se non è passato molto pare di sì):
Lui entra nell'aula. Quello giovane. Senza degnarla di uno sguardo parla a quelle persone che si comportano come studenti perfetti. “Uscite di qui.” Non ci sono accenti, e la voce è proprio bella e calma. Quelli semplicemente posano le matite, si alzano, recuperano i cappotti e escono. Lui guarda l'ultimo chiudersi la porta alle spalle, poi si avvicina alla cattedra (c'è una cattedra, e un telo bianco per le proiezioni) e scosta un poco la poltrona del posto del professore, girandola appena verso di lei. Poi va alla parete dei cappotti e premendo un pulsante le finestre cambiano colore e c'è parecchia più luce nella stanza. Adesso lui si stira in un raggio di sole poi va a a prendere una sedia, la porta di fronte alla cattedra, ma girata verso la classe, e ci si siede cavalcioni, ossia verso il telo per le proiezioni e la sedia scostata.
Lei ha smesso di piangere e lo guarda tra i capelli e le dita, senza capire.
Lui continua quel che fa, qualunque cosa sia. Si allarga la cravatta, se la leva, la mette ben dritta sulla cattedra, apre i primi due bottoni del colletto.

Circa un mese prima:
Lei ha appena finito di interpretare Ofelia nella versione mezzo-musical di Amleto del suo liceo, ed ora si sta cambiando e struccando dietro le quinte. Quando è uscita sul palco per inchinarsi e salutare, sua madre piangeva.
Intanto la professoressa che ha curato la regia sta parlando con una donna in tacchi e tailleur blu scuro, e le getta sguardi frettolosi. La donna ha i capelli di una miriade di tonalità di biondo raccolti dietro la nuca. Quei capelli inspiegabilmente hanno l'aria di essere naturalmente di quel colore e non tinti. Quando stringe la mano alla prof, inforca un paio di Ray-Ban dal taglio classico, e stranamente non sembra un poliziotto.

Ancora quel giorno:
Lui è bello, ma non in modo appariscente. Non ha niente che spicchi in modo particolare, eppure lei è curiosa quando le chiede se vuole per favore andare a sedersi davanti a lui. Non sa perché, né si chiede perché, ma si alza e va a prendere posto a quella sedia che lui le ha preparato.
“Ti posso assicurare che non vedrai mai più quell'uomo.” Nella voce non c'è compassione, non un fremito di comprensione. Sta esponendo dei dati, come se le dicesse quanto ha piovuto in India con l'ultimo monsone, e il tono non accenna a cambiare, né a vibrare anche solo per un attimo. Se parlasse appena più veloce lei potrebbe perdersi qualche parola, ma così come sta facendo ciascuna è scandita perfettamente.
“Capirei se tu non volessi più considerarlo, ma noi vorremmo davvero lavorassi con noi. L'abbiamo già deciso quando ti abbiamo vista alla recita. Chiaramente non posso farti pressioni. In effetti preferirei parlare d'altro, visto che mi pari scossa.”
Per un attimo lui guarda la cattedra, e sembra leggere qualcosa nel blu tinta unita della cravatta. La mano di lei sposta un suo ciuffo che pendeva tra i due, ma lei non ne è conscia.
“Silvietta. Da quanto tempo vi frequentate?” Lei ha appena il tempo di cominciare a mancare un respiro, perché lui non aspetta una risposta. “State assieme, no? Però, non saprei, non mi pare tu sia troppo convinta.”

Mesi prima, d'estate:
Lei e Silvietta sono appena andate a correre assieme: han deciso di iniziare assieme ed in anticipo la preparazione per la stagione, e visto che i genitori dell'amica sono in vacanza passeranno qualche giorno assieme a casa sua.
Lei è la prima ad andare in bagno per farsi la doccia, e come sempre ammira la vasca immensa dell'idromassaggio. Si è appena spogliata e ha messo i vestiti sudati nella borsa che si è portata apposta da casa. Apre la porta della doccia, entra, chiude, apre l'acqua calda. Silvietta entra nella stanza e comincia a riempire l'idromassaggio, senza dire niente. Apre la porta della doccia, entra, chiude l'acqua. Lei è presa di sorpresa, e lo sguardo dell'amica le chiede di non parlare mentre l'altra comincia ad accarezzarla e baciarle via il sudore di dosso, intanto portandola fino alla vasca.

È passato giusto il tempo di rabbrividire, quel giorno:
“Giocate entrambe a calcio, vero? Ma in due squadre diverse. E tu sei centrocampista e mezza-punta. Il 10 penso sia un numero un po' pesante da portare, non trovi anche tu? Eppure mi pare di capire che ha sempre dato buoni risultati nel tuo ruolo. Goals e assists, anche se mai da fare il salto di qualità.” Per la prima volta lei si chiede chi mai sia questa persona, e capisce ufficialmente che quello più anziano non era il suo superiore., e comunque pensa che sia proprio bello.
“Lei è portiere, e tra due settimane giocate assieme. Immagino te le abbia promesse.”
Lui riprende in mano la cravatta e la guarda un poco come una cosa aliena rigirandosela qua e là, prima di rinfilarla. Lei non riesce a non seguire i suoi movimenti.

Solo il giorno prima:
Lei e Silvietta sono nude sotto le lenzuola. L'amica, che è più alta, ha i capelli corti con una frangia e ha meno seno, le sta coricata sopra e gioca con le ciocche che lei ha sempre sul volto. Il sorriso è quello di una persona esuberante sempre e comunque, con tante energie emotive da sembrare un piccolo sole vagante. Lei si chiede come finiscano sempre così, a letto assieme, anche se lei non sente di averlo mai desiderato. Il suo corpo le dice che le piace, ma lei non sa se ascoltarlo.
“Tra due settimane preparati che non vedi palla.”
Lei chiude gli occhi, gira la testa da un lato e si limita a sospirare. L'altra probabilmente fraintende: le scosta i capelli e le sfiora l'orecchio con le labbra. Parla e la mordicchia delicatamente. “Ho detto alla numero 3 di pensare solo a te, e piuttosto di morderti. Hai presente la 3, quella che chiamiamo Stam.”

Quel giorno, immediatamente:
“Non sto per farti una domanda, né una richiesta. Prendilo come un ordine: tra due settimane vincerai. Prima non voglio tu decida niente riguardo a noi e al nostro lavoro, il mio e il tuo.” Lei si limita a fissarlo, e lascia che un boccolo le dondoli davanti agli occhi per un bel po', senza sapere cosa farci. Lui le fa una domanda: “Quanti anni pensi che abbia?”
Lei risponde, e sono le prime parole che gli abbia mai detto. “Non sono brava a indovinare queste cose.”
Lui si alza, mette una mano nella giacca e prende un biglietto da vista nero e argento e i suoi Ray-Ban. Guarda le lenti, appoggia il cartoncino sulla cattedra e le dice: “Tu ne compi 18 tra due mesi.” Se ne va.

Oggi:
Sono ad un tavolo accanto alla vetrata che da sulla strada, in un ristorante al nono piano di un grattacielo newyorkese. Il sole splende sul loro tavolo riflettendosi in mille modi su posate e bicchieri, e un cameriere minorenne ha appena portato le loro ordinazioni. Lui ha davanti alla bocca la punta di una lancia di asparago, e le dice: “Sei bellissima, lo sei ogni volta che sei così radiosa.”
“Grazie.” Dice lei in mezzo ad una minuscola risata, mentre cerca di capire da che lato cominciare ad intaccare la sua omelette per non rendere il piatto meno bello.
Lui: “Avresti mai immaginato di poterti trovare qui oggi?”
Lei: “Prima, non sapevo neppure questo posto potesse esistere, né la differenza tra frittata ed omelette.” Mentre alza lo sguardo per guardarlo negli occhi, i ricci ramati saltano ovunque davanti a lui, e lei vorrebbe scoppiare a ridere.
Lui: “E pensare che solo cinque anni fa, dopo la partita, mi hai chiamato e hai solo pianto.”
Lei: “E tu per tutta la telefonata non hai parlato, e quando ho smesso di piangere hai chiuso la comunicazione” Lei sorride nel ricordare quella ragazzina che era, e si chiede che fine han fatto tutti, ma non lo vuole sapere o già lo saprebbe.
Lui: “Ma l'indomani c'ero, e anche tu.”

Quel giorno, la sera:
A casa, per l'ennesima volta lei legge entrambe le facce del biglietto: nome e recapiti da una parte, e dall'altra una scritta a matita: “I vampiri vestono Ray-Ban.”