Le avventure di Alice: God save the Queen.

Author: Matteo Piovanelli / Etichette: ,


    Così riversò sulla piccola creatura tutti i suoi dilemmi, i suoi patemi, le sue sofferenze, sia quelle vere che quelle che si era creata da sè, e che quindi erano ancora più sentite.
    Come aveva odiato tutte le compagne di papà, alcune senza conoscerle, addirittura alcune senza mai volerle vedere. Come alla fine si era resa conto del perchè, una volta essere diventata una donna. Come la faceva sentire quando lui la guardava, ma vedendo solo una figlia. Come avrebbe voluto che lui la guardasse, come avrebbe voluto che le parlasse, come avrebbe voluto che la toccasse. Come invece parlava a questa nuova arrivata, come senza dubbio la guardava, come probabilmente la toccava, come questa sconosciuta ricambiava.
    A tratti si infervorava, ma per lo più manteneva un tono calmo, come se stesse parlando di qualcun altro, dei problemi si una sua amica.
    Dopo essere andata parecchio avanti con il suo monologo, iniziando a sentirsi pericolosamente lucida, incominciò a prepararsi una nuova canna, continuando a parlare sovrapensiero, e si rese conto di stare chiamando la chiocciola Signora Maggie, e di starle dando del lei. Questo era molto divertente, ma le sembrava anche del tutto naturale.


    «Ora mi berrei volentieri un caffè, o meglio un tè, Signora Maggie, ma fa davvero troppo caldo.»
    La Signora Maggie era sulla sua spalla che l'ascoltava annuendo. Indossava una giacca rossa leggera, che arrivava fino al piede. Tra le antenne portava un delizioso cappellino azzurro, decorato con un fiocco di raso di una tonalità un poco più scura, e con una delicata piuma bianca. Osservandola, ad Alice non venne in mente nessun animale che potesse avere piume così piccole, ma poi si ricordò che magari era di un bruco, e comunque sarebbe stato sgarbato chiedere, perchè se era un'imitazione, magari la Signora Maggie avrebbe potuto avere l'impressione che glielo avesse fatto notare apposta per qualche ragione derisoria borghese. La borsetta a quadri era proprio bella, e come tutte le borse a quadri delle signore quasi anziane ma ancora giovanili, pareva dovesse scoppiare da un momento all'altro, spargendo chissà quali meraviglie in ogni direzione pensabile.
    «Sai, hai ragione figliola. Ma comunque non è l'ora giusta per bersi il tè, che poi non mi dormi e ti vengono le occhiaie.»
    «Ma tanto domani non devo nè uscire, nè vedere nessuno di particolare, quindi posso anche permettermi di dormire poco.»
    «E cosa ne sai? Magari succede qualcosa che non ti aspetti, e poi rimpiangi di non avere dormito abbastanza del tuo sonno di bellezza.» Con quel suo tono scherzoso, la Signora Maggie era davvero incantevole.
    «Con quel suo tono scherzoso, Signora Maggie, lei è davvero incantevole.»
    La chiocciola scoppiò in una lieve risata contagiosa, e prendendo Alice a braccetto la accompagnò nella stanza del castello.


    Quando ebbero sbollito le risa, la Signora Maggie indicò ad Alice la campagna, dove fremeva l'attività delle operaie. Si aspettava che fossero più tranquille a quell'ora della notte, e perciò rimase un pochino a bocca aperta ad ammirare come una formica più grossa delle altre stesse correndo tutto intorno ad un gruppo di sue sorelle più piccole, che tirate e spinte stavano disponendosi su quattro righe molto ordinate.
    La Signora Maggie iniziò a scivolarle giù dalla spalla sul braccio, causandole una viscida sensazione di solletico.
    «Vieni giù Alice, seguimi.»
    «D'accordo Signora Maggie, dove andiamo?»
    «Vieni con me che andiamo a parlare con queste brave ragazze.»
    «Intende dire le formiche?»
    «Sì, certo. Vedi qualcun altro nella stanza?»
    Lievemente imbarazzata Alice si guardò intorno ridacchiando, poi si mise in ginocchio e lasciò che la chiocciola andasse sul bordo del terrario.
    «Ora mi raccomando mia cara, parla a voce bassa che le mie amiche sono piuttosto sensibili.»
    Piuttosto divertita, la ragazza portò la sua voce ad un sussuro.
    «Va bene.»
    Scivolando scompostamente sul bordo unto di vaselina, la Signora Maggie arrivò infine sulla terra della campagna. Borbottando tra sè, si smanacciò via la povere di dosso. Poi si avvicinò decisa e sorridente verso la formica più grande. Le due iniziarono a confabulare tra loro.
    Alice avvicinò il capo, per cercare di ascoltare, ma non riuscì a cogliere nulla oltre al tono della chiocciola che rassicurava l'altra. Ad un certo punto l'operaia gesticolò verso di lei indicandola e voltandosi subito a fissarla, imitata da una sorridente Signora Maggie, che prese a ridere quando vide l'imbarazzo dipinto sul volto della ragazza, che si sentiva scoperta in qualche atto poco gentile ed educato.
    Allontanandosi si sedette a braccia e gambe incrociate, alternando risatine sciocche ad espressioni corruciate. Entrambe queste esternazioni le sembravano via via le più adeguate, e perciò si susseguivano senza sosta nè ordine.


    Dopo centinaia di cambi di espressione, durante i quali Alice cercò, tra l'altro, di convincere un'ombra sul soffitto a spostarsi per far coincidere i suoi contorni con l'ombra del telaio della finestra (e per un attimo aveva avuto l'impressione di stare per riuscirci), la voce della Signora Maggie la richiamò verso la campagna con parole difficili da capire a causa della grande distanza che separava la loro fonte dalla loro foce.
    Gattonando la ragazza tornò dall'amica, che si scambiò un ultimo cenno di complicità con la formica, mettendole una mano incoraggiante e fiduciosa sulla spalla ed annuendo.
    Ricordandosi solo all'ultimo di sussurrare, Alice chiese: «Cosa succede qui?» ed il tono sinceramente ingenuo ed interessato avrebbe addolcito i caffè presi nella stanza per ore, se ci fossero state tazzine per raccoglierlo.
    «Le mie amiche vogliono parlarti, Alice.»
    «Oh, molto bene, alora credo che le ascolterò.»
    «Sì, sarebbe carino ed educato da parte tua.»
    «Grazie, infatti lo farò. Ed inoltre sono interessata a sapere cosa possono avere da dirmi le mie care formichine.»
    Facendosi ancora più vicina, la ragazza causò un attimo di caos tra le righe delle operaie, che iniziarono a sparpagliarsi. Solo l'intervento di quella più grande, che corse tutto intorno a perdifiato, riportò l'ordine, e Alice fu premiata dall'espressione infastidita di questa gigantessa tra le sue sorelle. Inoltre la Signora Maggie la rimproverò bonariamente:
    «Cerca di fare piano, figliola. Anche solo le ciocche dei tuoi capelli potrebbero fare molto male a queste piccoline.»
    Sinceramente dispiaciuta e preoccupata, fatto che si poteva vedere dal fatto che si stava mordendo un angolo del labbro inferiore, Alice chiese scusa.
    «Mi dispiace formichine. Non era mia intenzione di spaventarvi. Prego, ditemi quello che volete.»
    Annuendo ancora una volta alla chiocciola, l'operaia più grande si rivolse alle sue sorelle, imperiosa nella sua stazza davanti alla prima riga, e cominciò a gesticolare. Se stava anche parlando, la ragazza non lo sapeva, perchè non la poteva sentire. Sentì invece un flebile coro levarsi dalle altre, una sola voce che prese forma e forza, nel tono ritmato di tante voci piccole e sottili.
    «Ti salutiamo Portatrice-di-Vita. Ti salutiamo in nome della nostra nobile regina Deidre la fertile.»
    «Portatrice-di-Vita? Sarei io?»
    «Sì Alice,» le disse la Signora Maggie, «io no di certo.»
    «Grazie mille piccole amiche. Io contraccambio il più cordialmente possibile i saluti della regina.»
    Ignorando completamente lo scambio tra le due, le formiche continuarono.
    «Tu Portatrice-di-Vita ci doni lo zucchero con cui la nostra regina nutre sè stessa, per portare al mondo larve forti ed industriose. Tu ci doni le prede che permettono a noi sorelle operaie di avere la forza per sostenere il clan. Per questo noi ti siamo immensamente ed eternamente grate.»
    «Di niente, signore. Per me è un piacere.»
    Le operaie continuarono ancora senza dare credito alla risposta della ragazza. Questo fatto le diede un po' di prurito, ma si disse che probabilmente quelle bestioline avevano imparato il discorso a memoria, e non prevedevano uno scambi di battute.
    «Ma tu, Portatrice-di-Vita, sei anche Signora-della-Prigionia.»
    «Che cosa?»
    Offesa, Alice si scordò completamente di dovere parlare sottovoce. Non che avesse gridato, ma il suo tono normale era troppo per quei piccoli insetti, che si gettarono a terra coprendosi il capo con le zampette tremanti. Alcune iniziarono più rapidamente che potevano a scavare una buchetta in cui nascondersi. Quella che mantenne di più la calma fu quella grande: si gettò a terra come le altre, ma fu la prima a rialzarsi, e subito prese a correre da tutte le parti per recuperare il suo coro.
    Intanto la ragazza, appoggiando le mani sulla terra della campagna, si era sollevata a sedere, imbronciata e stizzita. La chiocciola cercò di calmarla.
    «Alice, Alice, Alice... Stai tranquilla per cortesia.»
    «Tranquilla?» disse l'altra ad alta voce. Poi tornò ad abbassare il tono, preoccupata per le formiche anche attraverso il velo ombroso della rabbia. «Tranquilla dice? Perchè dovrei stare tranquilla quando vengo insultata dalle creature a cui ho dato tutto?»
    «Oh, sono sicura che non volevano offenderti.»
    «Ha sentito anche lei che cosa dicevano.»
    «Sì. Beh, potresti almeno lasciarle finire, no? Cercare di sentire cosa intendono, farle spiegare, no?»
    Per nulla convinta Alice acconsentì. Tuttora arrabbiata, si chinò nuovamente sulla campagna. Le formiche erano di nuovo in ordine su quattro righe, ma meno numerose che in precedenza. Per questo, quando ripresero il loro coro, esso era molto meno intenso, tanto che la ragazza fu costretta ad avvicinarsi ulteriormente.
    La canzone era ripresa da pricipio: evidentemente non solo era un discorso imparato a memoria, ma le formiche non erano in grado di continuare dal punto in cui si erano interrotte. Fatto anche comprensibile, vista la gran paura che si erano prese e che le aveva decimate.
    «Ti salutiamo Portatrice-di-Vita. Ti salutiamo in nome della nostra nobile regina Deidre la fertile.
    Tu Portatrice-di-Vita ci doni lo zucchero con cui la nostra regina nutre sè stessa, per portare al mondo larve forti ed industriose. Tu ci doni le prede che permettono a noi sorelle operaie di avere la forza per sostenere il clan. Per questo noi ti siamo immensamente ed eternamente grate.»
    Visto che questa parte l'aveva già sentita, Alice cercò di coglierne la metrica, ma questa continuava a sfuggirle dalle orecchie, troppo aliena ed incostante per le sue orecchie viziate dagli strumenti degli uomini. Forse, dubitò per un momento, non stavano nemmeno cantando nella sua lingua.
    «Ma tu, Portatrice-di-Vita, sei anche Signora-della-Prigionia.»
    La ragazza non potè non farsi sfuggire un mezzo grugnito infastidito, sottolineato da uno sguardo severo della Signora Maggie, che fissandola con le braccia conserte bloccò sul nascere ogni possibile tentativo di protesta che stesse formandosi alla base sua mente.
    «Tu Signora-della-Prigionia avveleni le mura che circondano il nostro regno con la terra inscalabile. Tu ci costringi nei nostri confini, limitando lo sviluppo delle terre del popolo.»
    Era questo che faceva? No. Lei metteva la vaselina così le formiche non potevano invadere la casa, nè traferirsi abandonando il formicaio. Però dava loro tutto ciò di cui potessero avere bisogno nel formicaio, mantenendo il terreno della campagna e del castello umido al punto giusto, preparando ogni due giorni l'impasto di Bhatkar, dando loro gli insetti da mangiare quando ne catturava. Grazie a lei, loro non avevano conosciuto l'inverno, ed erano prosperate da un anno a quella parte senza la più minima preoccupazione.
    «La nostra regina ti chiede perchè, Portatrice-di-Vita, tu sei Signora-della-Prigionia. Noi ti adoriamo e temiamo, grande Madre, e ti chiediamo di concedere alle tue figlie il dono della libertà, se questo non è troppo, perchè il regno che ci hai donato, per quanto vasto, non sazia la nostra fame del mondo.»
    Stupefatta, ed ormai completamente dimentica di essere arrabbiata con le abitanti del formicaio, Alice si sedetta con un espressione persa, dichiarando: «Oh, merda.»
    Dopo pochi attimi la Signora Maggie la chiamò dalla campagna. Gettando lo sguardo la ragazza vide che stava dicendo qualcosa all'operaia che aveva diretto il coro. Poi si voltò verso di lei e le fece cenno di avvicinarsi per ascolatarla.
    «Ragazza, prendimi in braccio, perchè da sola, alla mia età, non riesco a scalare questa parete tutta unta.»
    «Certo Signora Maggie.»
    Lasciando che la chiocciola le salisse sulla mano, solleticandole viscidamente le dita, Alice continuò: «Ha avuto ragione a volere che ascoltassi.»
    «Vedi. Lo sapevo.»
    «Però prima mi hanno fatto proprio arrabbiare.»
    «Non ti preoccupare, capisco che ti possa essere offesa.»
    «E ora cosa dovrei fare?»
    «Ah, questo non posso dirtelo io, ragazza. Devi pensarci e rifletterci su te, e capire cosa è meglio, prima di prendere una decisione.»
    «Ci penserò, allora.»
    «Brava figliola. Ora puoi lasciarmi giù, se vuoi. Le ragazze, lì, hanno una conzone per te, ceh avevano preparato rappacificarti nel caso fossi ancora arrabbiata. Cosa ne dici di ascoltarla?»
    «Oh, sì, molto volentieri. La ascolta con me?»
    «No, grazie. Io ora andrò a dormire. Non ho più l'età per restare alzata così tardi.»
    «Buona notte allora, Signora Maggie.»
    «Buona notte Alice, e arrivederci.»


    E così l'anziana e pimpante chiocciola scese dalla mano e se ne andò, uscendo dalla finestra sul balcone, e portando con sè tutte le magiche sorprese che potevano essere nascoste nella sua unica borsa a quadri.
    Alice, intanto, si era riavvicinata sorridente alla campagna, un po' dispiaciuta per essere stata arrabbiata con il coro. Le formiche ora erano molto più numerose, e quando fu vicina si inchinarono tutte. Lei si trattenne dal ridere per la bellezza della scena, perchè non voleva che le sue risate causassero qualche danno alle fragili creaturine, ma si ripromise di conservare quell'immagine e riderne poi più tardi.
    Raggruppandosi ben strette, le operaie cominciarono la loro canzone, che la ragazza poi non ricordò bene, ma che sapeva essere molto dolce, e molto bella, anche se probabilmente non aveva molto senso. Oppure il senso c'era, ma era una cosa per formiche che Alice non sapeva se era stata in grado di cogliere, anche perchè era più un'idea che altro, e quindi non la si poteva raccontare e descrivere con le parole.

Le avventure di Alice: inizio.

Author: Matteo Piovanelli / Etichette: ,

    Quell'estate Alice aveva deciso di stare a casa con suo papà, nella grande e fatiscente casa sulla collina, immersa nel verde di un cortile dove alberi lacrimosi riposavano mogi al sole, aspettando che i fumi della Città finissero di insozzare l'aria che respiravano.
    Lui le aveva chiesto come mai, se ci fosse qualche problema.
    «È tutto a posto papà, sul serio.»
    L'aveva guardata con un sorriso dubbioso.
    «Soltanto che non mi va di andare in vacanza con gli altri, come lo scorso anno, di nuovo in quella casa, o in una simile. Sai che non sono mai andata matta per il mare.» Adesso toccava a lei sorridere, sperando di essere stata convincente.
    «Oh, lo so, lo so. Mi ricordo quanto piangevi quando cercavo di insegnarti a nuotare.»
    Le aveva passato la mano tra i capelli, scompigliandoglieli, e lei aveva riso. Sapeva che non si sarebbe opposto alla sua scelta, una volta che gli avesse detto che era quello che voleva. Non l'aveva in pratica mai fatto, e non avrebbe cominciato proprio ora che lei stava per diventare una quasi-post-adolescente-quasi-adulta.
    E poi, voleva esserne convinta, lui preferiva che lei fosse a casa, e non lo lasciasse da solo in quella grande villa così fuori dalla Città.
    Adesso Alice era seduta che si abbracciava le ginocchia sul davanzale della finestra della sua camera. Si era messa lì a leggere “Le cronache di Narnia”, pensando che forse sarebbe riuscita a farselo piacere, nonostante il fatto che qualcuno ci avesse fatto un film.
    Era un pomeriggio sereno, ma nella casa non faceva un caldo eccessivo. Non sapeva perchè, ma in casa non faceva mai molto caldo. Di questo lei era grata, perchè il caldo, sommato alla cocente umidità di tutte le estati, l'avrebbe fatta sudare e lei non sopportava di sudare. Ogni volta che sudava anche solo un poco sentiva subito il bisogno di farsi una doccia o un bagno. Non a caso aveva sempre odiato le ore di educazione fisica.
    Nonostante il suo odio per l'attività fisica (quando da bambina avevano provato a farla giocare a tennis si era sentita come se avesse qualche grave deficit psicomotorio, vedendo gli altri bambini tutti molto più bravi, veloci ed agili) , e la sua dieta approssimata e casuale, per lo più imputabile ad una totale assenza di educazione alimentare, Alice manteneva una linea invidiabile, ed il tutto senza soffrire dei disturbi che andavano tanto di moda. Probabilmente consumava tutto ciò che ingurgitava leggendo o badando alle sue bestiole.
    Le vennero in mente le sue bestiole, e questo la distrasse da quello che l'aveva distratta dalla sua lettura: papà era in cortile che spaccava legna, sudando sì, lui, per la fatica e per il caldo. Una volta lei gli aveva chiesto perchè si mettesse a spaccare la legna per il caminetto d'estate, quando non serviva.
    «La metto da parte. Questo autunno, e questo inverno, non ci saranno delle belle giornate così. E ne approfitto per stare all'aperto, fare un po' di attività. E così quando farà freddo non dovrò stare fuori a spaccare legna, perchè ne avrò un bel mucchio pronto per essere bruciato.»
    Però papà non era molto bravo a spaccare la legna. Spesso colpiva i ceppi un po' di storto, e ne faceva saltare via dei pezzi minuscoli. Oppure li lanciava in giro facendoseli sfuggire dalla lama dell'ascia. E poi si lamentava sempre che il ceppo più grande su cui tagliava gli altri era troppo basso per lui, ma erano anni che continuava ad usare lo stesso.
    Lui non se ne era accorto, ma Alice era rimasta a fissarlo per una buona mezz'ora, cogliendo nei propri occhi tutti i dettagli che potevano contenere, e desiderando poterli osservare meglio, poterli toccare ed esplorare. Non ricordava di essersi mai sentita attratta da suo padre quando era una bambina, ma appena lei si era sentita diventare donna, perchè lei si riteneva una donna ormai, non una ragazza (anche se una parte di lei, da un posto profondo dentro di lei, le diceva che il fatto di pensare a questa cosa fosse prova della sua non verità), aveva anche iniziato a guardare a lui come ad un uomo. E visto che era il SUO papà, le pareva ovvio che fosse il SUO uomo. Desiderava che questo si avverasse, e questa era una ragione che l'aveva tenuta a casa, quell'estate, invece che farla partire coi suoi coetanei ed amici.
    In effetti non sapeva cosa potesse fare per portare quell'uomo in particolare a vedere in lei una donna e non una figlia. Già con ragazzi della sua età si trovava impacciata e si sentiva un po' stupida anche solo ad immaginarsi nel ruolo della seduttrice; figurarsi a come si sarebbe inciampata nelle parole e nei pensieri e nelle azioni a provarsi femme fatale con lui.


    Comunque in questo istante Alice non stava pensando ai suoi improbabili tentativi di portare suo padre ad amarla, perchè come detto le erano venute in mente le sue bestiole. Aveva già preparato l'impasto di Bhatkar, e glielo aveva dato in mattinata, quindi si aspettava di trovarle tutte intente a raccogliere il cibo e portarlo nel castello.
    Scese da davanzale e aprì l'anta del balconcino condiviso con la stanza accanto a camera sua. Il cigolio dei cardini, che lei non aveva mai voglia di oliare, ebbe lo sperato effetto di attirare l'attenzione di suo padre verso i suoi short e la sua maglietta quasi consumata dall'uso. All'aperto faceva parecchio più caldo che non in camera, quindi aveva premura di rientrare. Salutò suo padre con un gesto ed un sorriso, attraverso cui le sfuggì un sospiro che comunque lui non avrebbe mai potuto udire, ma che la fece un poco venire voglia di arrossire. Poi entrò nella stanza del castello.


    Castello era il modo in cui lei chiamava il formicaio nel gigantesco terrario che aveva costruito l'anno precedente. Le pareva un appellativo doveroso, visto che ci viveva la regina. Prese il barattolo di vaselina per ripassare i bordi della campagna, ovvero dell'area di foraggiatura. Nel farlo seguiva i passi delle operaie che portavano il cibo fino alla base.
    «Brave ragazze. La vostra regina ha bisogno di mangiare per fare nascere nuove regine belle e forti. So che è passato un po' dall'ultimo insetto che vi ho fatto mangiare, ma non ne sono riuscita a trovare nessuno per voi, di recente. Dovrete accontentarvi del ricordo dell'ultima blatta, o se vi sono rimasti degli avanzi, di quelli.»
    Finito di spalmare quella roba scivolosa corse subito al bagno per lavarsi le mani, abbondando con acqua e sapone. Come al solito non passò dalla porta della stanza del castello. Erano anni che non apriva quella porta, preferendo passare dal balcone e dalla sua camera. Non sapeva nemmeno più se ci fosse una ragione per cui faceva così.
    Poi tornò dalle sue piccoline, inginocchiandosi accanto al terrario scoperto per osservare il fremere delle attività nel castello. Ogni volta sperava e temeva di vedere la regina deporre le uova, o qualche larva strisciare i suoi primi passi. Erano spettacoli meravigliosamente unici ogni volta, ed ogni volta tremendamente alieni.


    Dopo qualche minuto di silenziosa contemplazione, sentì bussare alla porta. Poteva essere solo suo padre, naturalmente, quindi Alice fu rapida nell'alzarsi da terra e volare fino alla sua camera ad aprire la porta per sentire cosa aveva da dirle.
    «Ciao pa'.»
    «Ascolta, che ore sono adesso?»
    «Uhm... boh... le cinque?»
    «Ecco, sì, più o meno sì... Verso più tardi, a cena, viene Matilde.»
    Il gelo scese dentro Alice, come un pugno allo stomaco. Ma fece di tutto per non darlo a vedere.
    «Allora credo che vi lascerò soli, e mi mangerò qualcosa in camera.»
    Preoccupazione e dispiacere nello sguardo di papà. Possibile che non capisse?
    «Sei sicura di non volere mangiare con noi? Ci farebbe piacere. A me farebbe piacere.»
    «Scusa, ma davvero, mi sentirei un po' fuori posto. E poi non la conosco nemmeno. Vorrei evitarti inutili imbarazzi.»
    «...Come vuoi. Ma se cambi idea fammi sapere.»
    «Certamente.»
    La porta si richiuse davanti al suo sorriso finto, nascondendole il volto di suo padre e l'espressione che c'era dipinta sopra. Il vecchio legno le permise inoltre di mutare il proprio volto da triste, a dispiaciuto, a arrabbiato, a deciso, il tutto in una manciata di secondi di completo caos interiore.
    Si trovava sull'orlo delle lacrime forse. In tal caso non riusciva a capire se fosse più per la rabbia o per la tristezza.
    "Le cronache di Narnia" era ancora sul suo tavolino da trucco. L'impulso fu di lanciarlo più forte che poteva fuori dalla fiestra. Poi decise di no.
    «Questo lo vado a rimettere in biblioteca.»
    Camminare l'avrebbe aiutata a riprendersi e tranquillizzarsi, quindi avrebbe girato per un po' in biblioteca leggendo i titoli dei libri, salendo sulle scale delle librerie, spostandole. Poi doccia, attacco al frigo.
    Poi si sarebbe presa un po' della marijuana che condivideva con papà, e si sarebbe andata a stendere tranquila in camera sua. Magari in frigo avrebbe anche trovato qualcosa da bere.


    La biblioteca era in realtà tutta una serie di stanze che lei e suo padre non avrebbero utilizzato in condizioni normali, perchè la casa era davvero immensa per solo loro due. Così nel tempo si erano riempite di librerie, e le librerie di libri, anche grazie al fatto che papà di professione leggesse libri, scrivesse libri e scrivese libri che parlano di libri.
    Quando Alice aveva iniziato le superiori, lui aveva cominciato ad insegnare all'università della Città. Letteratura inglese. Lei trovava che fosse particolarmente bello quando inforcava i suoi occhiali e si incamminava in cortile verso il garage, la camicia mai ben stirata nascosta in uno dei suoi spolverini, angoli di carta che facevano capolino dalla cartella di pelle d'ordinanza. Se avesse dovuto usare un solo aggettivo per descriverlo, sarebbe stato vittoriano, proprio come per la casa.
    Suo padre e la casa erano davvero ben assortiti.


    Dopo avere fumato in camera, Alice non riuscì a resistere alla tentazione di andare ad ascoltare la coppia a tavola. Come al solito tutte le porte al piano terra erano aperte, quindi sedendosi con le gambe penzolanti dal pianerottolo, e restando molto in silenzio, poteva sentire tutto ciò che quella smorfiosa propinava al suo papà.
    Ora parlavano di lavoro.
    «Di cosa ti stai occupando di 'sto periodo, John?»
    (Fatti gli affari tuoi e lascia stare mio padre.)
    «Beh, sto riguardandomi alcuni testi critici sull'Ulisse di Joyce. Nel prossimo anno didattico inizierò a tenere un corso di letteratura Irlandese moderna, e quindi ho parecchio da "ripassare", diciamo.»
    (Eh, il mio papà...)
    «Sembra interessante.»
    (Certo che lo è, sciacquetta ignorante!)
    «Tu invece?»
    (Non essere così gentile. Non se lo merita. Non si merita niente da noi.)
    «In questi giorni sto finendo di organizzare un viaggio all'American Museum of Natural History. Partirò nei primi di settembre con alcuni colleghi della facoltà e qualche studente.»
    (E vedi di non tornare.)
    «È fantastico. Deve essere un'esperienza davvero notevole.»
    (Dimmi che non sei entusiasta come sembri. È tutta una finzione, vero papà?)


    Infastidita, Alice si perse nei suoi pensieri. Dopo qualche tempo tornò a concentrarsi sulla coppia, attirata dai rumori di suo padre che sparecchiava.


    «Lascia che ti aiuti, John.»
    (Vedi di tenere le distanze.)
    «No, non ti preoccupare, stai comoda.»
    (Ecco, e non saresti molto più comoda a casa tua?)
    «Guarda che non è un problema, lo faccio volentieri.»
    (Non c'è bisogno di te in questa casa. Come te lo devo far capire?)
    «Non devi: sei mia ospite.»
    (E come il pesce cominci a puzzare.)
    «Ma, cosa ti sei fatto a quel dito?»
    (Che cazzo...?)
    «Niente di che. Una scheggia, oggi, mentre spaccavo la legna.»
    (Lavorava per la famiglia, il mio papà. E tu non ne fai parte.)
    «L'hai levata subito, spero?»
    (Ma credi di avere a che fare con un bambino idiota?)
    «Certo, certo.»
    (Mica è scemo.)
    «Ma comunque, perchè stavi spaccando la legna di sto periodo?»
    (Vedi che non sai niente di niente?)


    A questo punto Alice smise di ascoltare, sconfortata, e decise di prepararsi un'altra canna, cosa realizzata restando seduta dov'era, poichè si era previdentemente portata tutto il necessario in tasca.


    «Mi dispiace che tua figlia non partecipi alla nostra cena. Mi sarebbe piaciuto conoscerla.»
    (Ceeerto, come no? E magari fingerti la mia migliore amica per fare una buona impressione, vero?)
    «Non mi pareva il caso di forzarla. Ritengo sia un suo diritto cenare da sola, se è quello che vuole.»
    (Puoi scommetterci che lo voglio.)
    «Immagino di sì. Ma con tutto quello che mi hai raccontato di lei, credo che potremmo diventare delle buone amiche.»
    (Non ci contare, cocca.)
    «Sì, credo di sì. Avete parecchi interessi in comune.»
    (Ma mi vuole portare via il principale.)


    Canna pronta tra le labbra, accendino nella mano destra, Alice si alzò dalla sua postazione. Mentre si dirigeva verso la camera, creò il fuoco tra le sue dita, ed aspirò la prima boccata di fumo. Solo erba bruciata, ma erba con la 'e' maiuscola.
    In camera si guardò un istante allo specchio: le venne un'idea, che subito scomparve dimenticata. Odiava quando accadeva. Andò sul balcone. Fuori faceva un caldo umido e appiccicoso, reso appena sopportabile da una fine pioggerella che scendeva da un posto chissà dove tra le stelle dell'orizzonte. Appena più in basso, stava accucciata la Città, come una belva del colore dei carboni ardenti sotto la cenere, una belva pronta a gettarsi su una preda inerte, piccola e pelosa.
    La Città aveva un nome, un nome grigio che Alice conosceva, ma per lei quella da sempre era solo la Città, e non serviva chiamarla altrimenti.
Appoggiata al parapetto, per poco non sobbalzò quando si sentì toccare il gomito destro da qualcosa di viscido.
    Una chiocciola stava trascinandosi sul tubo di metallo, e doveva averla sfiorata con le antenne.
    «E tu dove te la porti la casa, piccolina?»
    Quasi quasi la ragazza volle avere l'impressione che l'animale si fosse mosso, voltandosi un po', per ascoltarla meglio. Nelle condizioni in cui era, questo fu sufficiente a farla ridere, e a farle venire voglia di confidarsi.

Dubbio.

Author: Jager_Master / Etichette:

Mi chiedo se questo blog è in perenne pausa di riflessione o è morto definitivamente.
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