racconto di fate sul cemento (2)

Author: la zuppa / Etichette:

Max. Max aveva iniziato a spacciare al liceo per questioni di emancipazione e mobilità sociale, dicevano i sociologi. Di soldi ne aveva pochi, ma non gli fregava. Era un tipo paffutello, Max e alle compagne non piaceva. Di questo gli fregava molto invece. Non piaceva a Marlene, la brunetta che se ne stava sempre con i suoi amici alternativi mezzi orchi e mezzi punk a fumare sotto le scale antincendio. Poi Max non piaceva al bidello Neo (lui lo stuzzicava sempre con battute pungenti e squallide sulla sua casa, sui suoi capelli). Non piaceva a nessuno, Max. Portava i capelli unti con la riga nel mezzo.
“vattene”, gli dicevano.
Da quando Max si mise a vendere erba le cose cambiarono.
Marlene lo cercava.
Tutti quanti lo cercavano. Il bidello Neo aveva fiutato la situazione e non esagerava più, perché suo figlio gli procurava la roba da lui. Stava meglio ora, Max. Meglio. Aveva iniziato ad esplorare l’esterno del suo guscio pesante incontrando parole buone qua e là. E fiori e i quadri e le spine velenose.

La sua casa era piccola e gialla e aveva un grosso baffo Nike inciso sulla facciata sotto una voragine bianca d’intonaco scrostato. Max la odiava, la sua casa, ma lei era anche il suo scudo e riparo dalla pioggia, dalla gente cattiva coi denti forti che abusava. (Il male che si nascondeva in qualcuno era il male che sentiva pesare sulle sue spalle. E piangeva, di tanto in tanto).
Stava meglio “perché le cose erano finalmente cambiate”, dicevano gli dei. Invece no, non cambiava niente, se non le nuove possibili combinazioni di sogni opachi da riordinare la mattina nel letto sfatto.
Sapeva che Marlene aveva degli occhi favolosi. (anche se il loro colore virava a seconda della posizione del sole o dell’umore e lei veniva riflessa ogni volta con una luce diversa, lui sapeva che la amava).

Vennero scattate molte foto, in quel periodo.
Max fuori dall’aula di Marlene che guarda dentro.
Max dietro a Marlene nel corridoio.
Max che aspetta Marlene nell’atrio alla fine delle lezioni.
Max che sogna Marlene e rotola.
Max che sistema l’erba per Marlene nel marsupio.
Max che aspetta Marlene.
Max che aspetta Marlene.

Col passare degli anni del liceo svanì l’abitudine della marijuana e Max iniziò a procurare occasionalmente dei minuscoli cartoncini a tutti. Gli acidi andavano forte, tra i super -punk psichedelici. Ne aveva una ricca scorta e la teneva divisa nelle varie scatole dei sandali della madre. Tutti si chiedevano da dove venisse, ma nessuno lo sapeva veramente. Svendeva e poi svendeva e poi regalava e svendeva e aspettava.

Max che si guarda nello specchio.
Max che sistema i cartoncini per Marlene nel marsupio.

Era insospettabile.
Indossava sempre uno dei suoi golfini pallidi firmati. Quello giallo o quello azzurrino.
Non si pettinava più prima di uscire, ma si schiacciava con cura tutti i brufoli gialli.
I prezzi li teneva bassi per tutti, perché a lui non importava dei soldi, a Max importava di lei. Lei che neanche gli chiedeva, che neanche lo guardava, che al massimo gli faceva un sorriso. O un saluto. O il sorriso o il saluto. (Non bisogna esagerare quando piaci a qualcuno).
Max non si faceva nemmeno, con la sua roba. A lui non andava di uscire da se. Voleva essere felice veramente, non voleva vedere le cose venir fuori dai muri e poi stare male e poi stare male di nuovo.
E allora aspettava l’appuntamento del giovedì sera impomatandosi il capo.
E aspettava ancora.
Ormai da un anno sopravviveva nell’attesa di una pillola settimanale di Marlene. Ricordava e sognava. Il giovedì sera a camminare intorno ai pesci rossi morti a pancia in su nel mezzo del parco. Lei che non era neanche la più bella di tutte, ma.
Gli regalava un cartoncino ogni tre, a Marlene. (Come faceva quel giordano vicino al parco coi kebab, crudi).
Poi.
Quando Joshua si era messo in testa di farla smettere, lei aveva iniziato a smettere e per Max la vita era diventata sottile. Iniziò a pregare e ad ascoltare il best of dei Culture Club ogni giorno, per ore, seduto in macchina. Gli si era gonfiato il viso a dismisura, e faceva fatica a parlare. Dopo poche settimane aveva perso sei chili e si sentiva come se avesse ingoiato un pompelmo intero. Bloccato nella bocca del suo stomaco. Il pompelmo e le malattie psicosomatiche. Le malattie psicosomatiche e il pompelmo.
Sospeso a testa in giù nell’esofago, i suoi piedi penzolavano.

Un martedì sera camminava in cerchio tra le mura del parco vuoto, pensando a Marlene e al senso di colpa stampato sul suo viso l’ultima volta. L’ultimo acido e l’ultimo sorriso, molti cartoncini prima. Pensò ad una poesia di Ferlinghetti e ad alcuni animali morti arenati nel catrame.
Joshua aveva sporcato il loro rapporto e aveva rovinato tutto.
L’aria correva e spaccava i muri, quando non riusciva ad evitarli. L’erba era umida per via della pioggia del pomeriggio e Max faticava a stare sui suoi piedi. Il perimetro del parco era nero e non si distinguevano i contorni degli alberi vicini alle mura alte del parco. Due. Solo un ciliegio storto e un melo e qualche cespuglio basso secco.
Sentì le foglie muoversi e raschiare tra loro producendo un suono dritto e continuo.
Pensò al vento e sorrise in direzione del melo.
Rimase sorpreso spaventato inorridito terrorizzato quando
vide un serpente enorme strisciare giù e penzolare da un ramo basso. Indietreggiò. Aveva gli occhi scuri che lo fissavano nel centro dei suoi occhi piccoli minuscoli castani. Il manto nero brillava, come qualche anno fa.
-ragazzino- lo chiamò il serpente. Max indietreggiò ancora fino a sbattere la nuca contro il palo di un lampione. –credi veramente che cambierà mai qualcosa?-
-io…-
-tu la vedi, poi la guardi, e ti accontenti di non sapere niente di lei, Marlene.
rinunci a tutto.
Per un sorriso, solo per quello-
Max lo ascoltava rapito da quella sua voce baritonale polifonica.
-poi qualcos’altro si mette in mezzo e ti toglie il tappeto e tu sei giù. A terra.
Credi che cambierà mai qualcosa?- lo incalza il serpente.
-io non lo so- rispose Max senza voce.
-no- lo interruppe -perché hai addosso quel golfino e tutte quelle croste in faccia. Perché non sai dire una parola. e nessuno parla con chi non sa parlare-
il serpente tacque per qualche secondo poi riprese a parlare –devi difenderti-
Cadde un’armatura di latta dall’albero.
Cadde pesantemente una spada di ferro vicino ai piedi di Max.
Il serpente si ritirò ruotando attorno al ramo più grosso.

Max si ricordava bene di lui. Era il serpente che gli aveva procurato il fattorino con l’erba e gli acidi. Ma adesso voleva che Max li facesse tutti a pezzi. Marlene, Joshua e i loro amici strani. Tutti quanti a pezzi.

Max tornò a casa e provò l’armatura. Calzava perfetta. E brillava d’argento.
Il mercoledì rimase a casa con indosso l’armatura e lucidò la spada tutto il pomeriggio.

Giovedì.
Conati di vomito.
Conati di vomito.
Sangue dal naso a fiotti. Una cascata.
Si incise sulla pancia con il coltello per il formaggio.
Non sapeva di preciso come sentirsi, come definire i fatti di quei giorni. Non sapeva cos’avrebbe fatto, ma non sapeva neanche quale male migliore lasciar appartenere al suo mondo. Voleva tutto e non riusciva ad afferrare le maniglie. Il male degli altri e il suo erano diversi, certo. Ma ai suoi occhi godevano entrambi degli stessi privilegi. Ai suoi occhi il male non aveva più alcun peso, e tutto era diventato piccolo e minuscolo. Un posto più alto in cui vivere, questo gli serviva. Aveva tagliato il cordone e si stava velocemente allontanando dal mondo a bordo di un’enorme mongolfiera. Il suo punto di vista era sempre più lontano da quello degli altri, sempre più vicino a quello di Dio. Quando vide Marlene nascosta nel parco aveva la spada nella mano. Pensò al serpente nero e strinse forte l’impugnatura, mentre notò stupito che la ragazza non lo stava guardando, non lo stava guardando.
Non stava guardando la sua armatura argentata, non stava guardando la sua spada lucida, non stava guardando la luce che il suo complesso d’argento stava riflettendo nel blu di quella notte gelida.

Fu in quel momento che vide le fate.

Seguendo lo sguardo rotondo di Marlene.
Erano molto colorate e molto piccole. Non riusciva a distinguere bene i loro lineamenti, ma erano dolci. Sembravano fatte di seta. Di una seta leggera. Danzavano in cerchio attorno alla fontana e ridevano di gusto mostrando i dentini. Brillavano ancora più dell’armatura d’argento e si muovevano velocissime.
Le vide danzare, le vide svanire.

Qualcosa si spezzò, dentro Max.
-ciao. Le hai viste anche tu?- le chiese stranita Marlene, all’improvviso di fronte a lui.
-s- sì-.
-e tu cosa ci fai vestito così? Cosa sta succedendo, stasera?- si guardò intorno.
-n- niente, credo- rispose Max lasciando cadere a terra la spada.

Max non aveva previsto sorrisi, fate, balli di gruppo, colori sgargianti.
Doveva essere tutto diverso, pensava. Doveva essere pieno zeppo d’odio. Tutto nero.
Ma qualcosa in lui si schiuse.
Aveva capito che il suo rapporto con le persone, che il suo rapporto con Marlene era continuamente innaffiato dalle cose che succedono. Lo sarebbe stato per sempre. Cose che non appartenevano a loro. Cose che lo avrebbero spinto da lì all’eternità su una barca senza vele e senza remi. E la distruzione avrebbe trascinato tutto giù, nell’abisso delle cose orribili.
Tutto quanto sepolto.
Giù.
Senza fate e senza niente di condiviso. Nient’altro che niente.

Vennero scattate molte altre foto, in quel periodo. (autoscatti).
Il sorriso di Max e ogni sua ferita non rimarginata.

Uno 3- durante il viaggio...

Author: la zuppa / Etichette:

Faceva un rumore forte, la moto che sfrecciava sulla strada per Bressanone. Nel raggio di chissà quanti chilometri doveva essere l’unico rumore. L’unico rumore. Carlo pensava al vuoto e alle pareti d’aria chiuse attorno alla sua vita. pensava alla paura che lo stava tenendo d’occhio, mentre piegava sui tornanti ghiacciati.
Ricordava quella faccia, quel giorno bollente di primavera, anni fa. Gli occhi che da lassù lo guardavano cadere. La promessa.
Il disordine nella sua testa esplosa lo faceva girare e girare e dovette fermarsi per respirare. Era la sua vita precedente, o forse un incubo. Un giocatore di tennis nella nebbia. Non vedeva le righe, la rete, il fondo e non vedeva l’avversario. Ma le palline continuavano a rimbalzargli sugli occhi.
Era fermo in mezzo alla strada, ancora sulla moto. Il vento era leggero e le foglie cadevano. Quando tossì per schiarirsi la voce si sentì minuscolo.
Non mancava molto alla città e il cielo si era chiuso in un recinto di nuvole grigie minacciose.
Ingoiò una delle due brioches.

Decise di ripartire, ma prima si voltò. Con la sensazione che qualcosa lo avrebbe seguito. Qualcuno o qualcosa di immenso lo avrebbe seguito ancora e sempre. Ma Carlo andava avanti. E si sentiva incastrato tra il caldo della speranza e il gelo della fine.
Lui sapeva di essere solo nel raggio di chilometri, ma sapeva di non essere l’unico.
Qualcosa che non voleva affrontare lo stava aspettando. Alle sue spalle.
Ma Carlo non sapeva ancora dove, quando e le braccia tremavano sul manubrio.

Vide il cartello “Bressanone” e si sentì meglio. Rallentò e si guardò nuovamente alle spalle.
I suoi occhi si dilatarono insieme alla pelle del viso, mentre le fiamme altissime avvolgevano la sua e altre case al villaggio.
Si morse il labbro inferiore fino a farsi sanguinare ed entrò di fretta in città sfrecciando lungo la via principale. Macchine vuote sparse sulla carreggiata, un furgone dell’ambulanza rovesciato, qualche bici legata a qualche albero nero di smog. Questa era la città, sotto le finestre chiuse degli appartamenti. Imboccò una traversa e si infilò in un vicolo molto stretto, mentre pensava alla sua casa di legno carbonizzata. Notò dei vetri frantumati a terra e l’ombra fredda dei palazzi. Sentì un rumore e ne rimase sorpreso. Individuò la melodia di un pianoforte sintetico. La riconobbe, la localizzò e si irrigidì davanti alla porta aperta di un negozio di souvenir.
Iniziò a piovere fuliggine.

Le avventure di una Gallina - Capitolo due: La decisione di Yaya

Author: Apo / Etichette:

La mattina seguente Yaya si alzo molto presto..... aveva occhiaie enormi....
Usci sull'uscio e si accese una sigaretta....
Yaya "Mauro, cazzo...dove sei?"

Nella fattoria regnava un silenzio di tomba....

Yaya "Ce l'ho nel culo.... cosa posso fare?"
Era tutta la notte che ci pensava....

Finita la sigaretta entrò in casa e si sedette sulla sedia a dondolo....stava per addormentarsi quando il telefono squillò....

Yaya "Ma puttana troia, chi cazzo è?"... esclamò avvicinandosi al telefono...
Yaya "Pronto?"
Operatrice "Buongiornocasapollaio?ChiamopercontodellatelevisioneEARTH,sa,lapeiperviù...leièlafortunatavincitricedelpianoEARTHPremiumepotràoràsceglieredivederecalciopornosportfilmbruttifilmbelliprogrammiperbambinipornoperbambinilesuperchicchelesupercheccheemoltoaltroancoraallamodicacifradiquattromilanovecentosettantasetteeuroalmese..."
Yaya "MA MUORI TROIA, HO ALTRI CAZZI PER LA TESTA"
Operatrice "Masignoraèunprezzoincredibilemenodisedicicaffèalgiorno...cipensiperf...."
CLICK
Yaya chiuse il telefono in faccia all'operatrice....in fondo aveva sperato che fosse Mauro.
Si risedette sulla sedia sconfortata....dormì a lungo Yaya quel giorno....e quando si risvegliò era già sera...

I giorni seguenti passarono veloci...troppo veloci per trovare una soluzione....
Il sesto giorno Yaya organizzò un'assemblea...
Yaya "Gente, mi spiace....siamo nella merda fino al collo...senza Mauro non posso far nulla visto che la Gang del Bosco ha preso in ostaggio le vostre mogli...non ci rimane che firmare...."
Si alzò un brusio...c'era chi era d'accordo...chi dissentiva e chi si cagava addosso....causando fastidio agli animali vicini....che si incazzavano disgustati.
L'assemblea proseguì per ore fino a che tutti furono convinti a firmare....e Yaya non si incazzò nemmeno una volta.... sembrava l'ombra di se stessa...

Il giorno dopo Yaya si incontrò con la Gang del Bosco...
Miguel "Allora chica....avete firmato tutti? Eh...?"
Yaya "Se..."
Paco "HAHA avete paura eh? Mierde...."
Miguel "Taci demente....Allora Yaya....fammi controllare..."
Yaya porse il documento al toporagno....
Miguel "Manca la tua, bella alcaciofa...volevi prenderce per el culo? Ora ti mostrerò cosa succede a prenderse gioco de la Gang del Bosco....HERMAN!!!"
Dal bosco uscì Herman, un grosso toporagno muscolosco accompagnato dai suoi sgherri....
Miguel "Herman es el capo de la squadra de attacco...."
Herman fece un cennò ad uno dei suoi sottoposti che portò allo scoperto un ostaggio...era Eva!!!
Yaya "EVA!!!! PORCA PUTTANA EVA!!!!!"
Miguel "Herman.... Matala!!!"... il toporagno sguainò la sua spada...era enorme e ricurva e si preparò a colpire la scrofa...
Yaya "Luridi figli di troia....non ve lo permetterò...."
E partì verso Herman, ma mentre stava per colpirlo fu atterrata da uno dei toporagni suoi sottoposti....
Herman guardò Yaya e le sorrise con un ghigno beffardo
Herman "Prepàrate....vi ucciderò entrambe"...e con tutta la sua forza caricò il colpo verso Yaya...
Yaya chiuse gli occhi.... quando.....
Miguel "Porca loca....che es accaduto?".....
Herman aveva mancato Yaya e al posto suo aveva sgozzato uno dei suoi compagni....
Miguel "Donde està la pollastra?"....
??? "HEHEHE è un gioco da ragazzi per me...."
Miguel "Esci fuori vigliacco...."
??? "Vigliacco? Io non rapisco le donne per ottenere ciò che voglio....a me basta la mia potenza e affronto sempre il nemico a viso aperto....mi sembra che tra i due il vigliacco sia tu..."
Miguel "Bastardo!!!! Fatti vedere che ti ammazzo..."

In quel momento dagli albeli sbucò una sagoma che con un salto si porto di fianco alla machina di Miguel portando con se Yaya....
Yaya "MAURO!!! Lurido pezzo di merda!!!!! Dove cazzo eri? Bastavano due o tre giorni di vacanza e invece te ne sei stato per i cazi tuoi tutta la settimana...stronzo."
Mauro "Mi sono allenato Yaya....ma conserva il tuo spirito combattivo per il nemico...del resto parleremo dopo..."
Yaya "Hai ragione...ora inculiamo sti stronzetti...."

Miguel "HAHAHA anche in due non potete far nulla...." e fece un cenno con la mano....
Yaya "Che cazzo succede?"
Miguel "Non otros siamo furbi... eravamo pronti a qualsiasi eveniensa...."
In quel momento Herman sguainò la spada e si lancò all'attacco nemmeno Yaya e Mauro assiene riuscivano a fornteggiarlo e Herman li spingeva sempre più vicino al bosco...
Yaya "Merda...se fossi più riposata...."
Mauro "Yaya ci spinge verso il bosco....avranno in mente qualcosa...."
Yaya "Non c'è bisogno che me lo dici cretino..."

Ma in quel momento Herman si fermò...
Mauro "E ora? Che cazzo fai?"...Herman sorrise e si voltò di lato... Yaya e Mauro guardarono nella stessa direzione.....
C'era Paco...con un cannone in mano....
Yaya "Mapputtanatr..."
Paco sparò...edal cannone uscì una gigantesca rete che li imprigionò.... Yaya e Mauro erano prigionieri....

Miguel "Mira chica....ho vinto io e da oggi la fattoria è sotto il nostro controllo....."
Yaya "Stronzo..."
Miguel "Ora....voi andrete nella prigione del nostro covo... a voi penserò dopo...perchè ora...Emiliano..."... e si girò verso uno dei toporagni in moto...questi scese dalla moto e si avvicinò a Miguel....si inchinò e gli porse un sombrero....
Miguel "Esto es el SOMBRERO DEL DIABLO.... es el simbolo del capo....e ora sono el governator de esta fatoria....portate via i prigionieri....devo preparare il mio discorso de insediamento..."
Yaya e Mauro furono portati via....mentre tutti gli altri animali sbirciavano dalle finestre impauriti.... sembrava proprio che fosse la fine per la fattoria...

a niu member

Author: Matteo Piovanelli / Etichette:

su mia iniziativa, discussa con bianconiglio (e forse con altri, non ricordo), benvenuta a bimbapixie

Conrad il druido - 5

Author: Jager_Master / Etichette: , ,

Il consiglio si svolgeva ogni primavera, dalla notte della prima luna per 3 giorni e 3 notti ininterrottamente.
Fondamentalmente succedeva un pò di tutto durante queste giornate, seguendo un tradizionale canovaccio mai rispettato fino in fondo: puntualmente, infatti, veniva stravolto da capo a piedi.

Conrad arrivò fra i primi, nonostante il contrattempo del cinghiale.
Come ogni anno la prima cosa che vide nella radura fu il classico circolo azzurro, che rasoterra tagliava prati, alberi, sassi e foglie, disegnando un perimetro circolare a difesa del consiglio, grossomodo per un paio di miglia di diametro.
Bastò il classico cenno delle due dita congiunte e il circolo aprì un varco, attraverso il quale Conrad poté accedere alla zona riservata per i druidi.
A dirla tutta non era quel gran fuoco di sbarramento: niente più che un’aura protettiva, creata per evitare a bestie e curiosi di mettere becco nella zona druidica nei giorni sacri. Poi si sarebbe dissolta nell’ultima notte.

Può sembrare strano, ma anche Ceck era “catalogato” come curioso.
E dunque rimase fuori, in attesa, sarebbe rimasto lì, fino all’arrivo del padrone, se questi non si fosse girato poco dopo.
E infatti Conrad attraversò il varco, poi si girò.
Tornò sui suoi passi e con un sorriso sincero salutò il suo più caro amico, accarezzandolo dolcemente fra le folte orecchie. A Ceck bastò: era il saluto del “via libera” e d’istinto volse le spalle al padrone lanciandosi nella foresta dalla quale erano da poco usciti.
Si sarebbero rincontrati 3 giorni dopo. Puntuali. Come ogni anno.
Conrad aspettò che il suo lupo valicasse l’orizzonte, poi si voltò anche lui, diretto alla rupe del consiglio, a poche centinaia di metri, sotto la collina.

Atholas, come sua abitudine, osservò interamente la scena a pochi metri di distanza, accovacciato sottovento, nell’erba alta. Era talmente basso sul livello del terreno che sarebbe stato impossibile anche per Ceck vederlo; figuriamoci annusarlo, coperto di fango e foglie come era in quel momento.
Prima sembrò interessarsi dell’animale. Ma quando vide che i due si erano divisi, aveva apprezzato la cosa: quel lupo poteva diventare un problema, ma forse la fortuna stava girando, dopotutto.
Poi la sua attenzione virò decisamente sul mezzorco e il suo circolo azzurro: passarci attraverso per seguirlo era cosa decisamente impegnativa. Non alla sua portata.
Quindi attese, anche se Conrad, ormai, era ben all’interno della zona riservata e stava sparendo all’orizzonte.
Sapeva bene chi doveva arrivare. E in quanti.
Infatti attese pochi minuti, fino all’arrivo di un altro druido: un lucertoloide. Lo osservò da lontano e quasi riuscì a sentirne l’odore salmastro, di acqua stagnante e di selvatico. La pelle del druido era cosparsa di squame e la sottile veste copriva ben poco di quel corpo slanciato da rettile. Soprattutto lo colpì la coda: era lunga almeno 2 metri, e nonostante fosse sottile traspariva notevole velocità e forza.

Non attese oltre.
Con gesto lento e preciso incoccò la freccia nell’arco corto, tenendolo parallelo e orizzontale rispetto al terreno. Quanto la lucertola fece segno con entrambe le dita, il cerchio azzurro si aprì, e per Atholas fu il segnale dell’attacco.
La freccia sottile partì rapida senza alcun suono, diretta al torace della lucertola; appena la saetta lasciò l’arco, Atholas si alzò di scatto, estraendo nello stesso tempo una seconda freccia.
Guadagnò qualche istante, con questo movimento, e quando la freccia arrivò a bersaglio, la seconda era già incoccata. Ma nel frattempo l’arco era in posizione verticale, con la sua mano più forte, e il busto eretto, a gambe stabili e aperte sul terreno.
In piedi era fin troppo facile: era come colpire un cervo legato.

Stilf era un druido giovane, ma nella sua poca esperienza aveva già conosciuto il rumore e l’odore del legno. Nelle paludi aveva unito l’istinto lucertoloide con la saggezza druidica, e la natura aveva ben pochi segreti per lui.
Sentì arrivare la freccia quasi subito. Era come la sensazione di un fulmine attraverso le tempie: deciso, rapido, immediato: era impossibile non accorgersene. Il legno “parlava chiaro”, la sua voce era inconfondibile.
Ma il legno viaggiava anche veloce. Troppo veloce. Soprattutto il legno argento, degli alberi elfici.

La freccia colpì, all’altezza del costato. Stilf si voltò verso la sorgente di quel ramo, che conficcato dentro di lui bruciava come non mai.
Lo vide.
In piedi, a circa 20 metri da lui. Nella sinistra un arco corto, nell’altra una freccia che stava per essere rilasciata. La figura intera era difficilmente riconoscibile: la sagoma sembrava di un uomo, o di un elfo, o anche di un troll di statura minore.
Poteva essere chiunque, e con quel rivestimento di terra e foglie era totalmente irriconoscibile all’occhio.
Ma le orecchie a punta no, quelle erano un segno inconfondibile.

La seconda freccia partì, ma questa volta Stilf era pronto: riuscì a osservare il momento dalla partenza e si preparò. Con una mano tenne la freccia nel costato ferma, per non avere impedimenti e dolori, con l’altra creò uno scudo verde davanti a se, attraverso il quale la freccia argentata in arrivo si dissolse all’istante, ancora prima di raggiungere la sua testa, alla quale era diretta.

Ma la punta seghettata della prima freccia stava facendo il suo sporco lavoro, e cominciò a trascinare sangue a fiotti fuori dalla ferita. Sarebbe morto dissanguato a breve: doveva dunque estrarla.
Rilasciò lo scudo, per quanto era un gesto pericoloso, ma non aveva scelta.
Con gesto rapido afferrò la freccia conficcata, provando delicatamente a tirarla fuori.
Atholas ne approfittò. L’arco era già a terra, abbandonato dopo il secondo lancio; la mano destra dietro la schiena, attorno all’impugnatura. La sinistra ben larga, a bilanciare la preparazione del gesto.
Con un gesto secco rilascò la mano destra, lanciando a mezza altezza il pugnale che teneva nella cinta, se possibile ancora più rapido della prima freccia. Sicuramente più preciso.

Stiff vide il gesto.
Mollò la presa con la seconda mano e riaprì lo scudo.
Ma il pugnale non conosceva legno. Neanche di sfuggita.
La lama, totalmente d’acciaio, penetrò nella gola del druido fino all’impugnatura, anch’essa di metallo.

Per qualche istante nulla si mosse, nessuno parlò.
Stiff cadde sulle ginocchia, ancora con la mano aperta allo scudo verde, ancora con l’altra che afferrava la freccia nel costato. Poi si accasciò sul lato. Immobile.
Anche atholas rimase fermo: ora i suoi sensi erano concentrati sull’ambiente circostante. Annusava e ascoltava, dimenticandosi di quel corpo morto che aveva davanti; lui non poteva più nuocere ora.
Quando finalmente decise che attorno a lui non c’era nessuno, si fiondò verso il lucertoloide, afferrandogli la tunica e tirandolo rapido verso la boscaglia.
Gli bastò trascinare il corpo in una fossa poco distante, scavata forse dai cinghiali. Abbandonò lì il cadavere, lo coprì rapido con un cespuglio sradicato e tornò veloce all’apertura.
Vide che attorno al varco c’erano visibili tracce di sangue sull’erba secca, ma decise che non ci poteva poi fare molto. Dunque se ne disinteressò quasi subito.

Un ultimo sguardo dietro di sè, poi si lanciò nel varco, e sparì, sulla strada lasciata dall’ignaro Conrad.

UNO: Capitolo 2....Il passato ritorna...

Author: Jager_Master / Etichette:

La fase successiva fu un misto di incredulità, giramento di testa a palla, balbettio, una serie di gh gh gh e mani nei capelli.
Si girò più volte su se stesso, sempre con le dita che gli toccavano ora la tempia, ora la cintura. Non sapeva che fare, giocherellava con i buchi della cinta e intanto roteava gli occhi come saette, a destra e a sinistra, mugolando come un bambino che sta per scoppiare in urla e strepiti.
E in effetti si lasciò sfuggire qualche singhiozzo, trattenendo le lacrime a stento.
Il mondo sfuocato dal pianto, tremolante e vacuo. Si asciugò con un gesto rapido, ma non smise di soffrire.
Sembrava una giostra di cavallini, Carlo, di quelle che con movimento lento ruotano e ruotano, ma ora con in più una cantilena di gh gh a ritmare la malinconica marcia.
Ruotava, Carlo, che quasi il mal di testa divenne giramento insopportabile.
E si sedette, sull’asfalto, per evitare di cadere disteso.
“Non è possibile. Alla fine è successo”.

Si, se lo aspettava, sapeva che prima o poi sarebbe accaduto, ma non immaginava ora, non adesso; non ora che a 64 anni aveva messo il cuore in pace.
L’incubo era stato riposto nel cassetto ormai da....quand’era? il ’78? Si, forse. O giù di lì.
La baita dietro la collina, la pace della vita da boscaiolo, la solitudine della vecchiaia: ecco, erano queste le sue prospettive di vita, ora.
Mai più pensava di ritrovarsi davanti a questa prova: per quanto, diciamocelo, era scritto.
E a pensarvi un secondo di più si poteva aggiungere che averlo dimenticato (o riposto nel cassetto, che fosse) era stato un errore madornale. Ingenuo. Per non dire pericoloso, ma quello era chiaro, non c’era bisogno di ripeterselo.

Passarono lenti e veloci i minuti. Mille pensieri, mille cassetti riaperti.
Carlo provò a rinfrescare la memoria, lucidare i risvolti e gli aspetti addormentati dalla polvere del tempo.
Era solo, ora.
Ma non poteva rimanere tale a lungo, doveva reagire, alzarsi e affrontare il destino, che prima o poi ti viene sempre a pescare, ovunque tu sia, porca miseria. E se lo era dimenticato.
Che idiota.
Anche in una baita di montagna sperduta fra le pinete del trentino. Non gli scapperai mai.
Che fesso, che imbecille.
Come poteva credere che una baita potesse nasconderlo dagli incubi? Come poteva aver pensato di trasferirsi lì, a costruirsi una nuova vita, lontano dalla città, lontano dal suo passato?
Solo ora, in quel parcheggio, seduto sull’asfalto, le cose riprendevano colore (o lo perdevano, a seconda del punto di vista).
Solo ora si ricordava, e riusciva nuovamente ad afferrare l’inafferrabile.

Poi il lampo.
Guardò l’orologio d’istinto.
Era fermo, certo, lo aveva notato anche prima.
04:42.
Quanto tempo era passato dal blocco? 3-4 ore? Forse 6? Sperò 6, ma si sarebbe giocato 50 euro sulle due ore: aveva albeggiato da poco, la valle era ancora stropicciata dalla rugiada e dal fresco mattutino. La luce del sole campeggiava sulle cime delle montagne vicino, aspettando il debutto nel cielo, di lì a poco.
Si, più o meno erano le 6 e mezza, forse qualche minuto di più.
Non aveva più molto tempo, doveva scappare.
Aveva tempo fino alle 8 più o meno per andarsene da lì, allontanarsi il più possibile. Poi Lui sarebbe arrivato.
Alle conseguenze era meglio non pensare.

Entrò nel bar di Dino sbattendo la porta, mise una mano dietro al bancone, lanciandosi sopra con la pancia. Afferrò un paio di brioches, e la chiavetta dentro alla scatoletta di metallo.
Poi corse nel rentro, e mettendo in tasca la colazione armeggiò con la chiave, aprendo un bauletto chiuso a lucchetto.
Aprì con un gesto secco il coperchio, afferrò la doppietta di Dino, una scatola di cartucce e se lo mise a tracolla.
Poi lasciò tutto così com’era e si lanciò nel cortile: non aveva molto tempo.
Via via via!

Saltò sul Suzuki, buttò sul sedile di fianco la doppietta, ingranò la prima grattando decisamente la marcia e si lanciò sulla statale, a perdifiato.
Destinazione Bressanone: nella città avrebbe avuto più possibilità, e forse Lui non lo avrebbe trovato.

bisogna pur fare qualcosa

Author: la zuppa /

1.
Zoe se ne sta lì, seduta su una roccia piatta. La spiaggia è vicina, a un passo. Piena di persone. Piena di parole lanciate in aria che ricadono pesantemente a un metro dalle sue orecchie. Tante minuscole goccioline le pungono la pelle ogni volta che il mare sbatte contro i suoi piedi. E si asciugano subito. Oggi che il vento è leggero e non stanca, il sole delle cinque è ancora giallo e gli ombrelloni sono ancora tutti aperti.

Zoe ha venticinque anni e il fiato corto. Da qualche minuto sta fissando una ragazza tatuata sul dorso del piede e decide di chiamarla Andrea come sua madre.Andrea indossa il suo stesso modello di costume a due pezzi, rosa e giallo. Ha la pancia piatta e l’ombelico in fuori. Con una mano sta sfiorando il fianco abbronzato di un ragazzo mulatto e sorride, mentre lo guarda sbirciando sotto la lunga frangia curata. Sono entrambi in piedi, uno di fronte all’altra. Proprio sul confine tra la spiaggia e il mare.Lui ha il fisico da surfista.Lei disegna dei cerchi sulla sabbia con il piede. “Che carini”, mastica Zoe con la bocca chiusa.
Click.(…)
Zoe agita la polaroid e la mette nel quaderno in mezzo alle sue foto di paesaggi (Cascata. Cascate. Sabbia al tramonto. Erba con pecore. Sabbia all’alba. Città di Mosca. Comitiva di cinesi con strapiombo. Comitiva di Italiani sotto il mare. Andrea e il ragazzo surfista).Pensa che si sente sola, più di sempre.Mentre rovista nervosa nella borsetta per cercare la scatola col tabacco, le cartine lunghe e qualche sigaretta già fatta, alcune urla mozzate stridule provenienti dalla spiaggia la stordiscono.Un Mammuth si è accovacciato al centro del campo da beach soccer.Zoe è convinta che i Mammuth si siano estinti.Zoe pensa ai peli dritti sulla pelle delle persone. All’eccitazione disegnata sui loro volti.Pensa alla paura e alla curiosità. Ai grossi animali estinti.Pensa alle parole gridate che si incrociano davanti a lei.A Jurassic Park
e pensa ad altri film con super-rettili gommosi.Pensa ai supereroi. Alla sua vita recente.Poi si volta per accendere una sigaretta lunghissima. E la accende subito. La accende proteggendola con una mano dal vento leggero e quasi impercettibile.Per un istante prova eccitazione anche lei. Ma la respinge. Poi fuma.

Si ricorda di quando fumava tabacco col suo ragazzo. Sul balcone facendo cadere la cenere sui vicini di sotto. Si ricorda anche di quando il suo ragazzo aveva fatto smettere anche lei, dopo che era morto suo zio. Aveva metastasi dappertutto. Ricorda che si erano lasciati e che lei aveva ripreso. Lui no. E che ogni volta che le loro strade sterrate si erano incrociate nei mesi successivi si era fatta trovare in una nuvola di fumo.Forse Dio avrà pensato male di lei.
Ma Zoe doveva pur fare qualcosa.

Spegne la sigaretta sulla roccia e la infila in una bustina di plastica contenente i resti del suo pranzo.Nel farlo si lascia scappare una pallina di carta dal sacchetto. Rimane fissa a guardarla. La guarda sciogliersi nel mare. Con gli occhi socchiusi.Pensa non sia l’unica cosa che le sta sfuggendo di mano.Pensa ed espira. Poi si volta e vede la ragazza col tatuaggio sul dorso del piede. Andrea. Le sta venendo incontro dalla spiaggia, mano nella mano col suo fidanzato dai lineamenti duri.Sono carini, ancora.Andrea si fa avanti e il suo viso si apre in un sorriso bianchissimo e sottile. -Posso chiederti una sigaretta? per favore-Quando si è felici si è sempre molto carini.Zoe gliela porge sorridendo a sua volta, meccanicamente. Sta pensando a tutt’altro (ormai è troppo tempo che il sole splende sul suo universo di sabbia bagnata).-Grazie- risponde Andrea tremando, ancora eccitata per l’apparizione del mammuth sul campo da beach soccer.È solo un suono ovattato senza più significato, e si scioglie nelle orecchie.I due ragazzi si voltano e affondano le dita uno nella mano dell’altra. Si allontanano lentamente dalle rocce, camminando sulla scia delle loro ombre lunghissime sulla sabbia.-Scusa!- urla Zoe per richiamare l’attenzione della ragazza (solo per ricordarsi che le cose attorno continuano a succedere nonostante tutto). Dopo averla distratta alza un braccio e aspetta di essere rimessa a fuoco.La coppia torna rapida sui suoi passi.-Cosa vuol dire quello?- le domanda indicando il tatuaggio sul dorso del piede.Andrea sorride cercando sarcasticamente aiuto negli occhi di lui.–niente-Zoe non sembra interessata. Non sembra importargli della risposta. Si chiede cosa stia facendo. Cosa sta facendo?Continua a guardare il suo viso pieno di pomeriggio felice e notti insonni.-e come ti chiami?--io sono Chloe. E lui è Josè- risponde Andrea imbarazzata.-messicano?--no, americano. Stati Uniti- risponde lui brusco e a voce bassa in italiano stentato.A Zoe non importa di lui, sta solo cercando di vedere come si guida l’inerzia delle cose.-anche tu sei americana?--no, i miei sono di qui. Ma io sto a Boston a studiare-segue un silenzio bello e imbarazzante per tutti.-Zoe- pausa. -Mi chiamo Zoe- sorride facendo un cenno con la mano. Poi prende fiato e guarda Andrea sorridere a sua volta. Ancora.-ci vediamo, allora- si schiarisce la voce –in giro per qua- pausa. -Buona serata, eh. E restate belli sempre-Il silenzio si spezza, la tensione si spezza, l’equilibrio si spezza.Zoe si dimentica ogni parola.-ciao Zoe, grazie ancora-Solo quando i due se ne vanno per sempre dietro alle loro ombre sempre più lunghe, Zoe presta nuovamente attenzione ad Andrea.Un’attenzione maniacale.Un particolare. “Quel costume a due pezzi rosa e giallo”. Respira. “È proprio identico al mio” pensa mentre accende un’altra sigaretta.

2.
Sono rimasta sulla spiaggia tutta la notte. A scrivere. È arrivata la protezione civile. Per via del mammuth. L’hanno sedato, ma non sanno ancora come trasportarlo.Lo porteranno in una palestra, magari. E poi lo studieranno gli esperti per tutto il resto dei suoi giorni.Scopriranno un sacco di cose interessanti, anche dopo che muore. Scopriranno cose da scrivere sui libri di storia e di biologia, mentre la gente continuerà a sopravvivere nelle capanne.Qualcuno riderà.Lui però adesso non vuole andarsene, glielo leggo negli occhi dilatati dalle iniezioni.Adesso sa che non se ne andrà mai dal campo da beach soccer.
La spiaggia non è mai stata così vicina.

Racconto di fate sul cemento

Author: Matteo Piovanelli / Etichette:


— Non posso credere che ci credi davvero... — Joshua era seduto a cavalcioni della balaustra di legno del molo piccolo. Il leggero vento salmastro di quella giornata grigia trattava la sua giacca slacciata di finta-pelle blu come fosse un mantello, ma non riusciva a peggiorare la situazione caotica dei ciuffi biondastri che aveva in testa. Lì seduto, appuntava su Marlene lo sguardo che si usa coi bambini che dicono una bugia palesemente troppo fantasiosa.
— Non ho bisogno di crederci. — La ragazza si era infervorata già da qualche battuta. Ora teneva i pugni stretti ai fianchi, le braccia tese fino a farle male dentro le maniche dello spolverino che le nascondevano lo sbiancare delle nocche. Il colletto rialzato si piegava verso il collo a sinistra e si mischiava nella danza dei capelli castani. Intanto Marlene gridava. — Non si crede in ciò che si sa: lo si sa e basta.
— Quindi tu sai che ci sono delle fate — pose particolare enfasi su questa parola, a sottolineare che era il fulcro intorno a cui ruotava tutto il suo scetticismo — che se ne vanno in giro per la città.
— è esatto.
— Stavo riepilogando. E mi dici anche che sai dove si trovano la sera.
— Non proprio. So dove si vedono il giovedì sera. Le ho viste l'altro giorno, e anche la settimana prima e quella prima ancora. — Marlene si stava quietando: pareva soddisfatta del fatto che l'altro le sembrava si stesse convincendo.
— Ok. Quindi sai dove si incontrano le fate il giovedì sera, qui in città. Bene. Dove?
— Al parco dei principi.
— Quella specie di prato abbandonato e sporco, con tutte quelle statue dall'aria lugubre?
— Già.
— E che cosa cazzo ci facevi al parco dei principi di giovedì sera, e per tre settimane di fila nientemeno?
— Beh... — D'un tratto la ragazza si chiuse timida.
— Ti dovevi incontrare con Max, vero? — Max era il loro spacciatore di fiducia, se così si può dire. La cosa bella era che non si sarebbe mai detto che Max spacciava, non conoscendolo, perché dava l'impressione che fosse sua madre a scegliergli i vestiti. Il suo business era cominciato al liceo: per evitare di essere preso in mezzo dai compagni più popolari, si era ingegnato a trovare un modo di rendersi importante o almeno utile. La sua strategia si era effettivamente rivelata vincente.
— Solo la prima volta... — Rivelato questo piccolo dettaglio, Marlene si era fatta piccola piccola, perché sapeva che poteva invalidare tutta l'opera di convincimento in cui si era impegnata quel pomeriggio
— Ecco... E magari Max ti ha concesso un piccolo assaggino prima di darti quello che volevi?
— Non ero fatta! — La ragazza era di nuovo esplosa nella sua furiosa dialettica da bambina capricciosa di nove anni. — Non ho allucinato!
— Hai visto delle fate! — Concluse Joshua con un tono che voleva ironicamente darle ragione, ossia no.
— Ti odio quando fai così. — E in quel momento ci credeva davvero, soprattutto considerato il sorriso a mille carati d'avorio con cui rispose l'amico. — E comunque le altre due volte di sicuro non mi ero fatta di niente.
— Sicura?
— Ma cazzo! Te lo sto dicendo!
— Ammetterai che delle fate al parco dei principi...
— Cosa? — In pratica gli strillò la domanda in faccia, perché la sua pazienza aveva un limite, e non ne poteva più di spiegare a quel cazzo di scettico cosa aveva visto chiaramente con quei suoi due occhi.
— No, dico... è strano... difficile da credere... — Merda, Marlene era talmente convinta che quasi quasi ci voleva credere anche lui, quanto meno per farla contenta. Era stato un pomeriggio lungo, stare ad ascoltarla, e adesso stava cominciando a fare freschino. Pensò di allacciarsi la giacca, ma gli sovvenne che così era molto più bella.
— Infatti, d'accordo. Anche io pensavo di avere preso un abbaglio, cazzo, la prima volta. Ma tre volte di fila no. Non è possibile che mi sia immaginata tutto per tre volte di fila. Sono andata lì ogni fottuta sera degli ultimi venti e passa giorni, e ti dico che ogni giovedì sera ecco che spuntano le fate.
— E che fanno?
— Non so. Niente. Se ne stanno lì a svolazzare e dopo un poco se ne vanno. Magari decidono che fare della serata. Non lo so. Ma nemmeno me ne importa, cazzo. Per ora mi importa saperne di più, magari andare a conoscerle.
— A conoscerle? E cosa pensi di fare? Scavalchi il cancello e ti butti in mezzo al loro gruppo, o sciame, o stormo, o come-diavolo-vuoi-chiamarlo?
E fu così che l'entusiasmo della ragazza si estinse. Fu come vedere un fiore appassire, solo sedicimila volte più veloce. Quasi sembrò che Marlene cambiasse anche colore. — Cazzo. Non ci avevo pensato così.
— Ascolta. — cercò di razionalizzare Joshua. — Facciamo così. Giovedì che viene vengo con te al parco, e mi fai vedere 'ste fate, ok? Poi magari cerchiamo di scoprire come si dovrebbe fare ad avvicinarsi a dei piccoli esseri mitologici inesistenti.
L'altra non colse l'ultima parola, o la ignorò completamente. Per il piacere degli anonimi occhi castani del ragazzo quelli quel giorno grigi di Marlene si illuminarono dall'interno. — Perfetto.


Il giovedì successivo Marlene era già davanti al cancello del parco una buona mezz'ora prima di quando si fosse data appuntamento con Joshua. Lui arrivò poco dopo, con in mano un felafel.
— E quello cosa cazzo è?
— Un felafel. Là dietro — gesticolio della mano libera ad indicare vagamente la direzione da cui era arrivato il ragazzo — c'è un georgiano che lo fa stupendo.
— Quando ci eravamo messi d'accordo non si era parlato di cibo.
— E allora?
— Metti che adesso non vengono per colpa del tuo panino?
— Punto primo: è un felafel.
— Un felafel-panino.
— Punto secondo: — Continuò lui allontanando la risposta con un gesto della mano che non reggeva il panino-felafel — se questi esseri magici hanno paura di un cazzo di felafel, allora hanno problemi ben più gravi del fatto che probabilmente non esistono. Punto terzo: sto felafel è proprio buono, e quindi vale la pena di non vedere delle fate per mangiarselo. E inoltre non ho ancora cenato.
— Beh, io ti ho avvisato. Se non vengono sai che è colpa tua.
Joshua rispose un mugugno di assenso addentando con piacere il suo felafel, e scoprendo con ancora più piacere che negli occhi, quella sera vagamente dorati, dell'amica era palese il desiderio di assaggiare. Ma era troppo orgogliosa per cedere, accettando la presenza di un felafel al suo sacro incontro con il magico mondo delle fate. Ok, non aveva mai usato questa espressione, perché altrimenti lui l'avrebbe derisa davvero troppo. Ma se non fosse per questo l'avrebbe potuta usare tranquillamente. Anzi, se aveva un diario segreto da ragazzina, probabilmente aveva descritto così quella serata.
Mentre lui finiva il suo panino (ci si poteva ingozzare per quel che la riguardava), Marlene si appoggiò alle sbarre del cancello, immaginando saette che lo colpivano con effetti da cartone animato, attirate dalla polpetta vegetale che stava masticando. Quando lui le parlò seppe che aveva finito di mangiare, e che quindi poteva guardarlo senza ricordarsi di essersi dimenticata di cenare.
— A che ora è che dovrebbero arrivare le tue amiche?
— Le altre volte sono comparse intorno alle nove.
— Porca puttana! E allora perché cazzo mi hai detto di essere qui per le otto?
— Non volevi mica rischiare di essere in ritardo? — La voce le uscì più acida del voluto, ma non era riuscita a trattenersi.
— Cazzo... E io che sono anche arrivato in anticipo...
Dunque i due si misero ad aspettare. Marlene tornò ad appoggiare la testa tra le inferriate del cancello. Ogni tanto si voltava verso l'altro, ma lo scopriva sempre intento a camminare avanti e indietro fumando sigarette a ripetizione, un po' per il vizio, un po' per il nervoso, un po' per rispondere alla domanda (Ma chi cazzo me lo ha fatto fare?) che gli frullava in testa. Dopo una mezz'oretta Joshua cristonò sonoramente.
— Che cosa cazzo c'hai adesso?
— Ho finito le sigarette, porca troia. Vado a comprarle.
— Sbrigati.
— Altrimenti? Mi perdo il balletto delle fatine?
Il tono con cui la domanda era stata posta consentiva una sola risposta. — Fanculo!
Marlene prese a guardare ossessivamente l'orologio fino a quando non fu tornato il ragazzo. Aveva bisogno che qualcuno le credesse, e sapesse quello che sapeva lei. Non che dubitasse di quello che aveva visto, ma se si fosse sbagliata?
Alle nove spaccate, non sentirono alcun rumore. Pochi attimi dopo Joshua stava per fare una battuta sul fatto che quelle piccole stronzette volanti se la prendevano pure comoda a farsi vedere, ma preferì evitare una discussione in quel momento. Il viso dell'amica era dipinto in un'espressione così puramente implorante da essere dolorosa agli occhi. E inoltre, se avesse avuto ragione? Non che lui ci credesse, ma mettiamo caso che avesse ragione, e facendo casino le fate, spaventate o chissà che, decidessero di non mostrarsi? Meglio non rischiare. Non aveva ancora deciso se l'avrebbe derisa quando nulla sarebbe apparso. A giudicare dagli occhi che aveva Marlene in quel momento, forse non sarebbe stato il caso, per qualche tempo. Magari le avrebbe offerto qualche cosa da bere per tirarla su, prima. Ripensandoci era meglio di no: con la delusione che sembrava dovere patire da un momento all'altro l'alcol l'avrebbe resa una compagnia frignona e fastidiosa. La sentì trattenere il fiato, e si rese conto che era rimasto con lo sguardo puntato su di lei, senza davvero vederla, sovrappensiero.
La ragazza si era portata una mano davanti alla bocca. Con l'altra, quasi in lacrime per l'emozione, indicava nel parco. Seguendo la traiettoria del braccio e del dito che lo terminava, gli occhi di Joshua arrivarono a delle luci che fluttuavano davanti alla statua derelitta di chissà chi. E queste luci parevano lasciare una scia come di polvere, che cadeva lenta e si disperdeva in fretta. E ce n'erano di tutti i colori: verdi, gialle, rosse, azzurre, bianche, viola. Di tutti i colori che si potrebbero dare a delle luci allegre. Senza parole, il ragazzo provò ad aguzzare lo sguardo, ma quelle cose erano troppo lontane, e troppo piccole, e non riuscì a cogliere altri dettagli. Si limitò a fissarle, allora, e altrettanto faceva Marlene.
Ad un certo punto le fate volarono tutte nella stessa direzione, scomparendo nel buio del parco deserto.
Al ragazzo ci volle ancora un po' di tempo per staccare lo sguardo dalle ombre dove prima avevano volato quelle cose. Quando lo fece incrociò quello dell'altra: uno sguardo felice, ebbro di trionfo. Non seppe cosa dirle, e lei si limitò ad attendere.
— Cristo... — fu tutto quello che infine lui riuscì a cavare fuori dalla sua gola secca. Aveva bisogno di bere qualcosa, e anche in fretta.
Marlene gli si gettò al collo. Era il suo modo per iniziare a festeggiare la cosa. La seconda parte dei festeggiamenti doveva assolutamente includere un pasto. Così non pensò nemmeno di rifiutare quando Joshua propose di andare ad un pub che aveva visto arrivando, vicino al georgiano del felafel.
Il pub in questione era piccolo e aveva un'aria molto familiare. Di più non si può dire, perché i due amici, presi come erano dai loro pensieri e da ciò che avevano visto, non registrarono nessun dettaglio. Si sedettero ad un tavolo. Joshua lasciò la giacca di simil-pelle blu sullo schienale della sedia ed andò ad ordinare due guinness, e chiedere che c'era da mangiare per Marlene. Visto che la ragazza si era dichiarata disposta a infilarsi in pancia qualunque cosa, le ordinò un po' dell'arrosto di maiale al miele-e-mostarda con patate che c'era stato per cena. Mentre aspettava le due stout, stette appoggiato al bancone fingendo di badare al gruppo che si stava preparando sul piccolo palco del locale. Fisarmonica, chitarra acustica, arpa, flauto. La ragazza dell'arpa (arpista?) era già seduta al suo posto che accarezzava lo strumento con gli occhi chiusi, un mezzo sorriso, un'aria nel complesso divertita ma concentrata, come se cercasse di capire, appena sfiorando le corde, se tutte le note sarebbero suonate come dovuto. Ecco le sue due pinte.
Anche Marlene stava guardando il gruppo. Accolse con piacere la birra che gli portava l'amico, e con un po' di dubbio l'ordinazione che aveva fatto per lei.
— Domattina a che ora apre il parco? — Chiese lui tutto ad un tratto.
— Non so... Non sono nemmeno sicura che apra. Hai visto in che stato è?
— Se non apre, tanto meglio.
— Ma che ci vuoi fare?
— Voglio andare dove abbiamo visto volare quelle cose
— Fate — lo interruppe.
— Ok, le fate. — Acconsentì Joshua abbassando la voce. — Voglio che andiamo lì.
— E perché, scusa?
— Perché quella specie di scia, di polvere colorata che si lasciavano dietro. Deve essere finita per terra quella roba. E allora dobbiamo raccoglierne e capirne di più.
— Certo, cazzo. — Rispose Marlene, illuminandosi (anche perché aveva adocchiato un piatto uscire dalla cucina) — Non ci avevo mai pensato.
Nell'istante in cui il cameriere stempiato sulla cinquantina posava il piatto davanti alla ragazza, nel pub cadde il silenzio. Il gruppo era pronto e stava per cominciare. Joshua si guardò un attimo attorno, e scoprì che erano sicuramente i più giovani in quel posto. Tutti i clienti sembravano avere quasi l'età del tizio che li aveva serviti, se non di più, tranne un ragazzo sulla ventina che se ne stava in un tavolino d'angolo, dando col viso verso il posto vuoto contro il muro. Ora anche lui però guardava verso il palco, in attesa.
Le prime note giunsero dalla voce dell'arpista, che ancora teneva gli occhi chiusi, e né Marlene né il suo compagno avrebbero saputo dire se erano parole o che altro. Sicuramente non le capivano, quindi potevano tranquillamente essere semplici suoni. Lentamente tutti gli strumenti si unirono alla canzone, e nel pub ripresero i dialoghi, con toni sommessi come a non volere disturbare i musicisti. Il ragazzo nel tavolo d'angolo si mie a parlare da solo, conferendo ad ampi gesti con un interlocutore inesistente, ma nessuno parve farci caso, e quindi anche Joshua decise di ignorarlo.
La mattina seguente i due si trovarono davanti a scuola con largo anticipo rispetto alla campanella, e presero il bus per andare al parco dei principi. Trovarono chiuso, ma non si scoraggiarono. Mentre Marlene faceva da palo, l'altro scavalcò il cancello. Guidato dalla memoria e dalle mezze indicazioni dell'amica, fu sul punto dove le fate avevano volato. Si guardò per terra, tra i piedi, ma niente. Non c'erano polveri colorate. Si mise gattoni per controllare meglio. Né polveri, né null'altro di insolito. Niente di niente. Rimase lì per un bel po' a trascinare il naso per terra, col ritmo e il volume delle bestemmie che aumentavano man mano. Neanche le imprecazioni però cambiarono la faccenda. Non c'erano tracce delle creature che erano volate su quel punto la sera prima.
All'ennesimo — Cazzo! — Marlene rispose.
— Basta, se non c'è niente non c'è niente. Vieni fuori.
— Ma non è possibile...
— Nemmeno che ci fossero delle fate ieri sera lo era...
— Cazzo...
— Ok, hai messo in chiaro la tua opinione. Ora andiamo a fare colazione.
— Dobbiamo tornare.
— Va bene...
— E sai cosa? Chiamiamo Marco e Andrea, e gli diciamo di portare una telecamera.
— Giusto. Dopo colazione andiamo a vedere se Marco è a casa.
— Perfetto.
Così dopo colazione andarono dal loro amico Marco, che abitava con la sua ragazza Andrea in un appartamento per universitari, e che aveva una telecamera perché studiava per diventare regista. Andrea non c'era, ma Marco fece che accettare la proposta per entrambi, dichiarandosi scettico ma ben disposto, nel caso si fosse sbagliato, a riprendere delle vere fate.


Il giovedì Marlene e Joshua si presentarono alla stessa ora. Come la volta precedente, per scaramanzia o fame, il ragazzo si presentò con un felafel. Il che fece ridere l'amica.
— Cosa?
— Niente.
Poi arrivarono Marco e Andrea. Lui era armato di una telecamera piccola piccola, ma che garantì essere perfetta per riprendere qualunque cosa con qualunque luce. Lei si era messa addosso i vestiti più sgargianti che aveva trovato nell'armadio, perché pensava che sarebbe stato il modo giusto di agghindarsi. Si era anche ricoperta il viso di trucco colorato, come si potrebbe dipingere la faccia di una bambina per carnevale. Joshua aveva la sua giacca in simil-pelle blu, slacciata, ed un paio di jeans; i suoi capelli erano disposti in una maniera talmente caotica che si poteva pensare solo fosse dovuta a ore davanti ad uno specchio. Marlene indossava il suo spolverino; teneva i capelli sciolti, ma sopra ci portava un basco morbido che non si faceva notare troppo. I suoi occhi erano tra l'argento e l'oro. Marco si era infilato dentro ad una camicia chiara, e poi in un gilet a tinte smunte ed un paio di pantaloni slavatissimi. Aveva i suoi occhiali inutili (dovevano servire per riposare gli occhi, tipo quando usava il computer, ma li portava sempre, e quindi erano inutili) e la tracolla della telecamera.
Le nove. Da qualche parte sicuramente delle campane stavano suonando nei loro comodi campanili. Marlene non ne sentiva: fissava le ombre del parco fremendo per l'attesa. Dentro di sé sapeva che non sarebbe stata delusa. Joshua dubitava di avere visto ciò che aveva visto la volta precedente, e pregava di non essere considerato pazzo: quelle fate dovevano ricomparire. Marco si era già stufato di aspettare. Aspettare era una cosa da fotografi: lui doveva cogliere la vita, il momento, e questi erano sempre in moto e non si fermavano ad aspettare. Andrea non sapeva cosa pensare, ma d'altronde lei non lo sapeva mai. In genere si limitava a non pensare affatto: l'importante era dare all'esterno l'impressione di essere a proprio agio, buttando magari vaghi commenti privi di significato ed aggirando le domande dirette.
Un altro rintocco da qualche parte dichiarò che erano le nove e un quarto.
— Beh, si fanno attendere le vostre amiche... — Dal tono di Marco era palese che si sarebbe divertito a deriderli pubblicamente non appena gli si fosse presentata l'occasione.
Joshua rispose bruscamente. — Che cazzo vuoi che ne sappiamo?
— Tranquilli ragazzi. — Si interpose Andrea, tutta moine. — Non è il caso di arrabbiarsi, mi pare. Siamo usciti una volta noi quattro tutti assieme, approfittiamone per berci qualcosa e fare quattro chiacchiere da amici, no?
— Per me va benissimo. — La appoggiò Marco. — Purché nessuno tiri in ballo elfi, orchi, o altre cazzate simili.
Senza dire niente, Marlene se ne andò. Joshua, mandando affanculo gli altri due, la seguì preoccupato. Andrea disse che non era modo di comportarsi, e Marco dichiarò che si sarebbero calmati e avrebbero sistemato le cose. Loro due se ne tornarono a casa, passando subito a parlare di nulla con spensieratezza.
Marlene e Joshua tornarono al pub, appena lei riuscì a convincersi che non avrebbe pianto dalla delusione, e lui fu in grado di non essere troppo acido per la figura fatta. Non c'erano gruppi che suonavano, e nemmeno l'arrosto.

Eh be, la signora in giallo...

Author: GiAn /

Non so in che altro modo segnalarlo, quindi beccatevi questo

http://teatrinodisgustoso.blogspot.com

ola

episodi dalla fine del mondo mod1

Author: la zuppa / Etichette:

Fred.
Fred si sente protetto sotto il suo piumone azzurro cielo. Ha le mani grandi, Fred. Tanto che a lavoro le bestie gli hanno regalato i guanti di topolino. "Grazie" ha detto lui. Loro hanno riso, lui ha pianto. "Bestie". Il suono non esce, gli rimbalza nello stomaco.
Questa sera Fred non ha dato da mangiare alla tartaruga, le ha dato il Bacardi ed è morta. Poi si è messo il pigiama azzurro cielo e ha bevuto. (si sente protetto, sotto il suo piumone) "mi sento protetto sotto il mio piumone azzurro cielo" sogna mentre si infila nel letto gelato. La testa gli gira lentamente. mentre ruota dolce sul collo rosso urta col naso la bottiglia che dal cuscino scivola giù giù e si rompe. il fondo del bacardi ha sporcato il piumone. Fred raccoglie i cocci, si strappa le vene e il cielo si fa rosso. Poi tutto nero.

Le avventure di Alice: un sereno epilogo.

Author: Matteo Piovanelli / Etichette: ,


    Nel frattempo Sean attirò l'attenzione di Alice verso un pomodoro che aveva fatto rotolare spingendolo fino a lì, sicuramente quello per cui gli altri due stavano litigando. Era un frutto (o una verdura) non ancora maturo, e perciò verde e duro, e non si era minimamente rovinato nel venire usato come proiettile.
    Sempre ridendo sotto i baffi, che peraltro non aveva, il ragno spiegò:
    «Quello» ed indicò Walter, che proprio in quel momento stava passando a mezz'aria sopra la schiena dell'orso che era appena inciampato in una radice, «non riesce a distinguere i colori, e perciò gli va qualcosa che gli faccia da, diciamo, "esempio di rosso". Così Vin gli ha consigliato un pomodoro, ma l'altro che ha fatto? Ha pensato "meglio prenderne uno che mi duri a lungo, così spendo meno di frequente" ed è andato a comprarne uno non ancora maturo. Vin, vedendo la cazzata, ha preferito non dirgli niente, e farsi due risate alle sue spalle, così Walter se ne sta andando in giro da giorni scambiando verde per rosso.»
    Questa doveva essere una cosa che Sean trovava divertente, così ad Alice parve educato ridere con lui, anche se pensava che un poco la condizione del lupo fosse triste, anche se non capiva perchè. Senza pensarci granchè, si trovò a raccogliere il pomodoro ed infilarselo in tasca, sperando sotto sotto di poterlo ridare a Walter partecipando così al gioco di prenderlo in giro in modo da capire cosa lo rendesse divertente.
    «Ma comunque com'è che quei due si conoscono?» Chiese la ragazza.
    «Sai com'è», le iniziò a rispondere la signora Maggie, «con questi cavolo di borghesotti. Si mettono in testa di dovere convertire tutti ai loro presunti ideali, e così uno schifoso sfruttatore come Walter comincia a puntare un tranquillo orso, mendicante per scelta di vita, cercando di convincerlo a cambiare, per farne una sorta di esempio tra i non borghesi, e per potersi vantare delle sue capacità persuasive con gli amici del poker.»
    Intanto Vin, messo alle strette, aveva cominciato ad arrampicarsi su una acacia accanto alla betulla a cui era appoggiato poco prima. Il povero alberello dopo pochissimo prese a piegarsi sotto il peso dell'animale, e Alice pensò che non avrebbe potuto reggere. Poi l'orso si arrampicò un po' più in su, e l'albero si piegò maggiormente, e la ragazza non credeva che potesse reggere ancora. Ma Vin si sollevò ancora più in alto, piegando molto l'acacia, e a questo punto Alice si stava convincendo che nulla potesse spezzare l'elastica pianta. Fu proprio quando questo pensiero le attraversò la testa che con un "crack" molto più forte di quanto la ragazza si aspettasse il legno cedette alla gravità, mandando l'orso a gambe all'aria.
    La signora Maggie e Sean accorsero verso di lui per sincerarsi delle sue condizioni, ma più rapido fu Walter, che si trovava ad appena un balzo di distanza, a raggiungerlo per offenderlo, indifferente a come potesse stare.
    «Stupido grassone di un animale! Hai visto? Questo è perchè non sai come comportarti! Bisognerebbe che imparassi ad essere un orso a modo, invece di continuare coi tuoi atteggiamenti noncuranti, perchè vedi che portano solo guai.»
    Mentre il lupo parlava l'altro si era tirato a sedere singhiozzando sommessamente, e quando il primo prese fiato, sicuramente per poi continuare con nuove aspre parole, una veloce zampata di Vin lo mandò a rovesciarsi a terra più in là, intontito.
    Quindi la chiocciola, il ragno e la ragazza giunsero accanto all'orso per consolarlo. Alice era un poco intimorita dalla semplice mole della creatura, ma vederlo quasi in lacrime accanto all'albero spezzato ad accarezzarne le due parti la convinse della sua bontà di spirito, fugandone la paura.
    Per mostrarsi gentile e comprensiva, tacque, accarezzando la creatura tra le orecchie (per come era seduto, le riusciva di fare questo se stava sulle ginocchia, ma stendendo il braccio bene verso l'alto) e gli levò alcune delle spine della pianta che gli si erano conficcate nel pelo castano.
    La signora Maggie era scivolata fin su di una spalla dell'animale, e gli stava parlando.
    «Tutto bene Vin, non ti sei fatto male vero?»
    «Non va tutto bene» Rispose l'orso, con la voce che ci si aspetterebbe da tale creatura, ma incrinata da una tristezza che rasentava il pianto. «Ho rotto l'albero.»
    «Ma tu stai bene?»
    «Ha ragione Walter, quando mi muovo faccio solo danni.»
    «No, non è vero.»
    «Sì. Ho rotto l'albero solo perchè giocavo ad arrampicarmici.»
    «Ma è stato Walter a spingertici.»
    «Cazzate. E lo sai. Potevo non arrampicarmi. Solo che quando faccio qualcosa penso solo a me, e non a cosa può succedere, e combino casini.» Mentre parlava l'orso prese una fiaschetta da una tasca nascosta tra i suoi abiti, e ne trasse un lungo sorso. La fiaschetta era in realtà tale solo considerata in proporzione alle dimensioni di quell'animale, e quando fu aperta un forte odore alcolico colpì Alice in pieno volto, facendole allo stesso tempo desiderare di sboccare e di assaggiarne un poco.
    «Non è vero. Sarebbe potuto capitare a chiunque. E poi te sei uno che pensa agli altri.»
    «No, non è vero. Prendo tutto come un gioco. Non prendo le cose seriamente come dovrei.» Altro sorso.
    «Non scherzare nemmeno. Senza di te la Golden Cookies League non esisterebbe.»
    «E allora? Cosa facciamo per gli altri? Niente. Portiamo biscotti. Non è più un mondo adatto ai biscotti, questo, e dobbiamo rendercene conto.»
    Ora Alice si sentì di intervenire. «No, Vin, non è vero. La cosa da fare è impegnarsi perchè il mondo sia da biscotti, e per cominciare bisogna portare a tutti un po' della felicità che danno i biscotti, perchè altrimenti non sapranno cosa si perdono e tutto rimarrà com'è.»
    L'orso la guardò interrogativo, rendendosi per la prima volta conto di lei, e cercando di capire se doveva in qualche modo dare segno di averla riconosciuta o meno.
    «Io», continuò la ragazza imperterrita, «ho scoperto solo stasera della tua iniziativa, e trovo che sia meravigliosa, e che sia un inizio perchè il mondo migliori, perchè se la gente ragionasse di più nel modo dei biscotti, tutti ci si aiuterebbe di più e le cose andrebbero alla grande.»
    Vin stava palesemente per obbiettare qualche cosa, mentre la signora Maggie e Sean la guardavano colmi di rispetto. Alice però non si fermò per far parlare l'altro.
    «E questa pianta è un'acacia, quindi tirati su che tanto poi ricresce, e ancora più forte di prima.»
    L'orso si alzò, trascinato in principio dalla ragazza, che si era a sua volta appena messa in piedi. La guardava contento e sorridente, e quando fu sulle sue gambe bevve ancora un un goccio dalla fiaschetta, prima di rimetterla in chissà quale tasca segreta nascosta tra gli stracci della sua maglia.


    Anche Walter si era ripreso.
    «Allora cretino di un panzone, ti sei alzato? Possiamo andare a sto concerto? Dai, che così posso cominciare a convincerti ad andarcene.»
    «Ma tu perchè devi essere così stronzo?» Gli chiese Alice, con un tono sinceramente più curioso che arrabbiato.
    L'altro le rispose con un ghigno glaciale, sistemandosi il cappello. «Ma che cazzo di domande fai, cretina: in ogni fiaba ci va un lupo cattivo.» Detto questo partì al trotto verso il pozzo, accendendosi un'altra sigaretta nel tragitto.
    La ragazza lo guardò un attimo, ma si rivolse a Vin. «Come cavolo fai a sopportarlo?»
    «Cosa ci vuoi fare. Ognuno ha bisogno di prendersi a cuore un impegno. Il mio è Wally: voglio fare capire a quel poveretto che al mondo c'è più che le cose che si possono comprare.» Cominciò a frugarsi nella maglia, come alla ricerca di qualcosa. «Voglio ringraziarti per le parole che hai usato con me.» Le disse.
    «Ma no, non devi.»
    «Invece sì. Aspetta solo un attimo che lo trovo.»
    Alice non voleva niente per avere consolato l'animale, ma era anche curiosa di scoprire cosa questi avesse intenzione di regalargli, così non fece altre obiezioni mentre l'orso cercava in un'apparente infinità di tasche e pieghe, per poi produrne una piccola scatoletta di metallo dipinto, grande meno del palmo della mano della ragazza.
    «Ecco, tieni questo.» Le disse porgendole il contenitore. Era leggero, e su di esso era disegnato con una cura maniacale un paesaggio bucolico, con dei mulini a vento disposti su una verde pianura ondulata in una maniera che faceva pensare al caso pur apparendo ordinata.
    «Che cos'è?»
    «È uno dei miei biscotti, di quelli della Lega, ma è un biscotto speciale, come ce ne sono pochi.» Spiegò Vin, chinandosi per parlarle sotto voce verso la fine della frase, con l'aria di uno che voglia condividere un segreto divertente.
    «E come mai?»
    «Questo biscotto non si deve mangiare, no.»
    «No?»
    «No.»
    «E perchè?»
    «Perchè se lo pianti nel terreno adatto, e gli vuoi bene, e lo annaffi con del buon latte fresco di tanto in tanto, blandendolo con le parole, nasce un albero, e se gli fai tanti complimenti e gli mostri affetto tutte le sue foglie sono biscotti, di quelli al burro che facciamo noi, con la ricetta danese originale.»
    «Grazie mille.» Sbottò Alice, e gli saltò al collo.


    Quel momento venne spezzato da Walter, che dal bordo del pozzo gridò richiamando l'orso. Allora Vin si staccò dalla ragazza con un sorriso, e si avviò corricchiando e barcollando verso l'altro. Entrambi si gettarono dentro.


    Alice rimase un attimo imbambolata a fissare la scatoletta di alluminio che teneva ora tra le mane. Si riscosse quando sentì i primi allegri accordi di chitarra. Il concerto stava iniziando. Sia lei che la chiocciola che il ragno corsero verso il pozzo, proprio mentre anche un basso si aggiungeva intonato alla musica.
    «Oddio!» si preoccupò Alice giunta al bordo. «E io come cavolo faccio a scendere di qua?» E intanto guardava Sean che affrontava lo spigolo approssimativo che segnava l'inizio della discesa come se la pendenza non fosse cambiata per niente, e lui fosse sempre in piano.
    ("i've got nothing to worry about" aveva iniziato il cantante)
    «Fai come noi, Alice.» Le spiegò il ragno. «È semplice. Basta che continui a camminare.»
    ("so i worry about nothing")
    «Uuuuh Sean!» Intervenne la signora Maggie. «Questa la stanno cantando per te!»
    ("i think i've got fleas, or some tropical disease, but my spider sense is tingling")
    Poi la chiocciola prese per mano Alice, e iniziò a condurla giù per la parete del pozzo, ed in effetti era come camminare, e la ragazza notò che in fondo non c'era acqua, ma in qualche modo la luna si rifletteva in una pozza di latte, ed il bianco si sommava al bianco, ma poi inciampò ed iniziò a cadere verso il fondo. Voleva urlare, ma quando stava per cominciare si trovò completamente immersa.


    Alice tirò fuori la testa dall'acqua. Probabilmente si era addormentata nella vasca. Si guardò le mani, e pensò che fosse stata lì parecchio, visto che le dita erano raggrinzite e sembravano invecchiate di cento anni.


    Il giorno dopo Alice si sentiva stranamente tranquilla e rilassata. Si era alzata tardi, perchè per la prima volta in quell'estate era riuscita a dormire come si deve, anche grazie ad un rapido acquazzone che poco dopo l'alba aveva dato una rinfrescata al clima altrimenti torrido. A pranzo si era saziata di uno yogurt formato extra-large, di quelli senza nessun sapore particolare al di là di quello di yogurt.
    Ora se ne stava pacifica su di un'amaca appesa in cortile, all'ombra, con una leggera brezza di quelle che ogni tanto l'estate regala per dare un'illuzione di benessere tra due momenti eccessivamente caldi.
    Poco prima aveva vagato per le biblioteche, scorrendo sui titoli dei libri alla ricerca di qualcosa che la ispirasse. La mano le si era fermata su di una raccolta di poesie inlgesi, con abbondanti commenti critici, facilmente identificabili per il diverso carattere tipografico e quindi altrettanto facilmente evitabili.
    Adesso la stava leggendo, senza prestarvi particolare attenzione in realtà, ma lasciandosi cullare distratta dal dondolio dell'amaca. Ogni tanto le immagini dei poeti facevano capolino al di là della soglia dei suoi pensieri, che così, per esempio, si trovavano silenziosi di timore ad osservare una tigre fiammeggiante.
    Poi però ci fu un rumore che la distrasse dalla sua distrazione, attirando la sua attenzione verso il cancello. Da dove si trovava lo poteva vedere abbastanza bene, un po' di sbieco in verità, ma comunque riconobbe il rumore di un auto che vi si arrestava accanto, spegnendosi. Poi pensò di udire dei passi, ma sapeva di esserseli inventati, perchè non era così vicina al cancello.
    Dei sandali si affacciarono dall'altro lato dell'inferriata. Piedi femminili, caviglie snellite da un paio di tacchi bassi, una gonna gialla leggera che copriva le ginocchia. Non una gonna, ma un vestito a pezzo unico, retto da un paio di bretelle sottili quasi perse ed invisibili in una valanga di capelli castani, anche se dove stavano riflettendo la luce del sole sembravano biondi. Nessun gioiello, almeno niente di visibile da quella distanza. Le mani stavano mettendo nella borsa qualcosa: forse occhiali da sole, ma Alice non aveva fatto in tempo a vedere bene, e per quel che ne sapeva poteva essere un portachiavi ingombrante. La borsa in tinta col vestito, anche se in qualche modo un po' meno gialla.
    Dalla borsa uscì un cellulare, e quelle mani lo portarono all'orecchio destro dopo avere scostato una tonnellata di capelli che non si sarebbero definiti ricci. Lo sguardo cercò di rivolgersi verso una finestra in particolare, la trovò, sorrise.
    Alice non avrebbe saputo spiegare perchè o per come, ma non sentiva nè il fastidio nè la rabbia che si sarebbe aspettata e a cui si stava preparando. Una piccola parte di lei la implorò di fuggire, ma la tigre fiammeggiante la fece tacere e poi svanire.
    Matilde disse qualcosa al telefono, parve soddisfatta, riattaccò e ripose l'apparecchio, dopo averne scrutato il display brevemente. Gettando casualmente gli occhi nella direzione della ragazza, la trovò che la osservava di sottecchi, e decise che fosse il caso di salutarla.
    Nessuna vocina cercava di darle consigli ora, mentre Alice scendeva dall'amaca e si incamminava verso l'altra. Il giardino frusciava e cinguettava come consono a quell'orario in quel periodo, ma lei si voleva immaginare immersa nel silenzio, e così ad ogni passo cercava di eliminare uno di quei suoni.
    «Tu sei Alice, vero?»
    «Già. Tu invece sei Matilde. Ti ho vista di sfuggita l'altra mattina mentre eri in cortile che te ne andavi.»
    (Dopo che eri stata con mio padre). Ma la ragazza non pensò queste cose acida come solo poche sere prima.
    «Così finalmente ci incontriamo.»
    «Già.»
    (Complimenti per avere affermato l'ovvio. Vuoi una medaglia?) Di nuovo, non si sentì così cattiva nel immaginarsi a dire queste parole. Poi Matilde interruppe una pausa che stava minacciando di allungarsi troppo.
    «Che cosa fai oggi pomeriggio? Hai programmi?»
    «Mmmh... Veramente la mia idea era di abbioccarmi sull'amaca e sperare che non faccia più caldo di così.»
    (E poi sono anche un po' fatti miei).
    «Clima insopportabile, vero?»
    «Sì.»
    «Ma, ascolta, perchè invece non vieni con noi all'acquario?»
    «Non so se mi va...»
    (Ma che vuoi, scusa?)
    «Dai, sta settimana hanno aperto una specie di mostra sulle creature dei fondali oceanici, proprio accanto alla sezione sugli insetti.»
    «Come?»
    (Che carini gli insetti).
    «Lo so che non ha molto senso che ci sia una sezione entomologica in un acquario, ma non abbiamo un museo di storia naturale, in città.»
    «Quasi quasi...»
    (... E così anche papà è contento, che conosco la sua fidanzata.)
    (insetti insetti insetti insetti insetti insetti)
    «Lo sapevo. E poi, due punti a favore dell'acquario: visto che è legato all'università ci fanno entrare gratis; e c'è l'aria condizionata.»
    «Ok, dai, mi hai convinta. Vado a prepararmi un attimo. Ci metto due minuti.»
    Pensando contemporaneamente "aria condizionata" e "insetti", Alice si incamminò svelta verso casa, per darsi una sciacquata lampo e mettersi un qualcosa che si sentisse di utilizzare per uscire. Intanto suo padre stava uscendo dal portone, e le sorrise nel vederla. Lei contraccambiò e mentre gli passava accanto gli intimò di aspettarla ad ogni costo.


    La gita all'acquario andò piuttosto bene. Alice decise di perdersi ad osservare tutti gli insetti che potè, ascoltando ripetutamente le spiegazioni registrate di cui era corredato ogni terrario. Prestò meno attenzione a pesci, cetacei, crostacei e tutte le altre creature tipiche un acquario, ma si disse che la prossima volta avrebbe badato anche a loro. Matilde era anche mediamente simpatica, non insopportabile, ma forse esagerò un poco nel ricercare la sua complicità scherzando su suo padre. Pazienza, perchè ciò non fu sufficiente a rovinare il pomeriggio di Alice, che in effetti si protrasse fino a sera, quando i due adulti riuscirono a convincerla ad andare a prendere una pizza. Il caldo enorme del locale non gliela fece gustare al massimo, purtroppo, ma la ragazza quando tornò a casa potè dirsi soddisfatta.

Le avventure di Alice: ritrovo bagnato.

Author: Matteo Piovanelli / Etichette: ,


    Non avendo più aria da trattenere, fu presa dal panico. Subito non le venne in mente come comportarsi, come reagire: sapeva solo di essere sott'acqua, ma non riusciva a ricordare dove, nè come ci fosse finita. Aprì gli occhi, ed era buio. Dritto davanti al suo sguardo qualcosa di più scuro del resto si muoveva in maniera casuale. Poi le parve che ogni tanto si intravedesse qualche sorta di luccichio: stelle.
    Con tutte le sue forze Alice cercò di combattere la pesantezza che incombeva su di sè. Dopo una lotta infinita, riuscì a tirarsi seduta. Acqua le colava davanti agli occhi da delle foglie che le erano rimaste appiccicate in bilico sulla testa. La prima priorità era riempirsi i polmoni, poi le sembrava il caso di capire dove era.
    Il busto e le ginocchia non erano a mollo, così la ragazza poteva vedere che aveva indosso un vestito con una lunga gonna ed una sorta di grembiule, come quelli che aveva visto in tante raffigurazioni di Alice nel Paese delle Meraviglie. Blu chiaro, o azzurro scuro. Era seduta nella fontana del giardino sul retro di casa, ed i suoi guanti bianchi si stavano inzuppando, perciò si affrettò ad alzarsi in piedi, cercando nel frattempo di levarsi di dosso tutte le foglie appiccicaticce che prima stavano galleggiando.
    «Ehi, ma guarda qua chi c'è. Alice, figliola, come stai?»
    Da qualche parte arrivò la voce familiare della signora Maggie. Cercando intorno la trovò sul bordo della fontana, che agitava le mani per salutarla e per farsi notare. Indossava un piccolo cappello giallo, decorato da una banda di una tonalità più lucida, simile a seta. A questa erano legati in un fiocco dei fiori gialli che la ragazza non sapeva riconoscere. Portava anche una borsa più piccola dell'ultima volta, di quelle che bisogna tenere in mano perchè non hanno una tracolla utilizzabile: poco più di un grosso portafogli con molte tasche. Vederla così sorridente la faceva sembrare più giovane, ed Alice si interrogò su quanti anni potesse avere, ma si esimette dal chiederlo per educazione, ed anche perchè fu distratta dal dubbio che il giallo del cappello potesse andare bene col verde della giacca oppure no. E di cosa era la giacca, cotone spesso?
    Accanto alla chiocciola tossiva educatamente per chiedere le presentazioni un ragno elegante in doppio petto nero, che stava pulendo quella che sembrava una lente caleidoscopica, ma che certamente doveva essere un monocolo per ragni.
    La signora Maggie lo ignorò senza rendersene conto, e lui si rimise la lente davanti agli occhi destri, sorridendo in attesa del suo momento.
    «Salve signora Maggie. Sto benone, a parte che mi si restringeranno i guanti.»
    «Oh, ma quello non è un grave problema, vero?»
    «No, non credo lo sia. Cosa ci fa qui alla fontana?»
    «Sto andando al concerto. Pensavo ci stessi andando anche te.»
    «No, io non sapevo nemmeno che ci fosse un concerto. Dove lo fanno?»
    «Ma come non lo sapevi? Vuoi dire che mi ero dimenticata di invitarti, figliola mia? Oh, è imperdonabile da parte mia.»
    «Ma no, non la prenda così.»
    «Vediamo cosa posso fare...» La interruppe la chiocciola. «Sicuramente posso trovare un modo di farti entrare, visto che l'abbiamo organizzato noi questo evento, giusto Sean?»
    Sean, che naturalmente era il ragno elegante, abbozzò un lieve inchino verso Alice e poi guardò la signora Maggie in volto dall'alto delle sue lunghissime ed esili zampe, ma senza nemmeno un'ombra di superiorità negli occhi.
    «Certo Margaret.» Ed era la prima volta che la ragazza sentiva il nome dell'amica, notando tra l'altro il tono allegro del ragno, e una peculiarità nella sua pronuncia che non le riuscì di identificare. Doveva avere qualcosa a che fare con il modo in cui cui diceva le vocali, ma non era molto chiaro. «Immagino che potremo parlare con la sicurezza all'ingresso, e convincerli a fare entrare la nostra amica. Sono sicuro che non ci faranno problemi.»
    La chiocciola si avvicinò un poco ad Alice, parlandole con tono finto cospiratorio, senza preoccuparsi che l'altro stesse sentendo. «Io non avrei davvero voluto un servizio di sicurezza, ma ci hanno costretti. Fosse stato per me avremmo fatto una cosa libera per tutti, ma dicono che non possiamo fare entrare quanta gente vogliamo nel pozzo, che dobbiamo stare sotto un certo numero nel caso succedesse qualcosa. Tutte noie burocratiche.»
    «Ohoh» rise il ragno «Ma vecchia mia, sai che chi sarebbe venuto verrà comunque, quindi che problema c'è?»
    «È... tipo una questione di principio, credo. Comunque», tornando a rivolgersi alla ragazza, «Abbiamo fatto una vendita dei biglietti, e tutto il ricavato va in beneficenza.»
    «Dille a chi, dille a chi.» Le disse Sean, punzecchiandola leggermente con un gomito mentre una luce di fierezza gli brillava negli occhi.
    «Ci stavo arrivando...»
    «Alla Golden Cookies League.» Proclamò il ragno anticipandola e distendendo le zampe per portarsi nella posizione più elevata possibile da cui rendere il mondo partecipe. «Non è fantastico?»
    «Immagino di sì... in realtà non conosco questa gente...» Gli occhi del ragno, che si erano appuntati con una passione cocente in quelli di Alice parvero spegnersi mentre lei parlava. Il ragno si ritirò un po' in sè, compostamente, cercando di celare la propria delusione.
    Intervenne la chiocciola: «La Golden Cookies League è... È difficile spiegare cosa è... Sono un gruppo di appassionati che preparano biscotti secondo la ricetta danese originale, e poi si mettono agli angoli delle strade, e li regalano alla gente che li vuole, quanti ne vuole.»
    «Ma... io credo sia fantastico!» L'attenzione del ragno, che aveva annuito mogio alle parole della signora Maggie, sembrò ritornare, ed anche la sua allegria ricominciò a trasparire del suo sguardo. «Tutti dovrebbero sempre avere dei cookies danesi, di quelli al burro: sono buonissimi.»
    «Margaret,» disse Sean, «credo di adorare la tua amica.»
    Alice si trovò in imbarazzo per l'aperto complimento, ancor più per il fatto che proveniva da una persona (un animale in realtà, ma non le pareva il caso di badare a queste sottigliezze, visto che anche la sua confidente lo era) a cui era appena stata presentata. Chinò lo sguardo arrossendo appena un poco, e così non potè subito vedere da dove arrivava la voce che si unì alle loro.


    «Ecco, sapevo che sareste stati da queste parti, ma sinceramente speravo di non dovervi incrociare.»
    La ragazza sperava che ci fosse uno scherzo, una battuta, in quelle parole, ma il tono con cui erano state dette da quella voce burbera, faceva solo pensare il contrario.
    Comunque, prima che lei potesse appuntare gli occhi sulla creatura che era arrivata con tale infelice saluto, Sean replicò: «Sei sempre gentile come la grandine, eh Walter?»
    Walter si rivelò essere un grosso lupo grigio, con un paio di occhiali dalle lenti piccole, circondate da una montatura dorata, e un vestito dall'aria costosa e antiquata, che ad Alice parve decisamente troppo pesante per la stagione, di una tinta appena distinguibile dal pelo dell'animale, essendo questo di poco più chiaro. Reggeva in mano un cappello a cilindro, evidentemente parte di un completo col vestito, e guardò il ragno con uno ghigno malevolo e minaccioso che portò il piccolo aracnide a vacillare impercettibilmente.
    «Via, Sean, Walter, signori,» Si intromise la signora Maggie, «Non vorrete mica mettervi a discutere e litigare? È una serata di festa, oggi.»
    «Bah» commentò l'ultimo arrivato, indossando il cappello e prendendo da un taschino un accendino di metallo ed una sigaretta (la qual cosa fece venire voglia di fumare anche ad Alice, che comunque si trattenne dal chiederne all'animale) «Fosse solo per me io non sarei neppure qui con la vostra piccola boheme, ma mi starei godendo il poker in un ambiente ben più piacevole.»
    «E allora perchè», chiese la chiocciola, «sei venuto fin qui? Potevi risparmiare di degnarci della tua presenza.»
    «Sai com'è, le buone azioni non passano mai impunite.»
    Alice avrebbe voluto chiedere cosa intendesse dire, ma il lupo continuò: «Ma dimmi Margaret, chi è questa tua amica che se ne sta coi piedi a mollo a rovinare un paio di stivali, vestita come fosse appena uscita da una lezione di storia nella scuola di una fantasia vittoriana?»
    La ragazza si accorse in quel momento che in effetti non era ancora uscita dalla fontana, e si affrettò a rimediare, mentre la signora Maggie faceva le dovute presentazioni.
    «Questa è Alice, Walter, una mia amica. Alice, questo è Walter, e non posso dire che sia un mio amico.»
    «Salve Walter.»
    «Oh dio, ragazza, che diavolo hai in testa?» disse il lupo con tono tra lo scandalizzato ed il disgustato, «Una signorina a modo dovrebbe avere un'acconciatura, e non dare l'impressione di essere appena uscita da una seduta col giardiniere di un parrucchiere.»
    «Non essere screanzato, ora, l'hai appena conosciuta.» Lo redarguì il ragno.
    «Screanzato?» rispose Walter apparendo offeso, e offeso per lui voleva anche dire sul punto si essere arrabbiato, «Sono semplicemente sincero. La sua famiglia non dovrebbe permetterle di uscire in quello stato. E guardate poi come ha ridotto quel povero vestito: vergognoso.»
    Alice era un poco intimorita da quell'animale, un poco umiliata dalle sue parole, ed entrambe queste sensazioni la facevano arrabbiare.
    «Come osi giudicarla senza neppure conoscerla, solo in base all'aspetto» si inalberò la signora Maggie in sua difesa. «Chi ti credi di essere te? Anche con tutti i tuoi soldi rimani un cane pulcioso.»
    Ora il lupo era palesemente arrabbiato, e non faceva alcuno sforzo per nasconderlo: mostrava i denti ringhiando, ed il pelo gli si era drizzato tutto. «Come osi tu dare giudizi, quando tuo marito Robert e te non riuscite nemmeno a vivere nella stessa casa, e ve ne portate due diverse?» Sean sembrava essere sul punto di intervenire, ma uno sguardo di Walter lo ammutolì, facendolo piccolo piccolo. «E tu, cosa pretendi di parlare, tu sciocco pittore fallito di un alcolista? Le tue tele sono a malapene buone a prendere la polvere negli scantinati.»
    A questo punto anche la ragazza aveva perso le staffe, e rispose all'animale con altrettanta rabbia di quanta ne aveva mostrata lui. «Stai zitto lupo cattivo! Se sei arrivato qui solo per offendere ed insultare, puoi anche andartene al tuo lurido tavolo di poker, con altra gente schifosa quanto te.»
    Walter fece qualche passo verso di lei, minaccioso, ed Alice fu sul punto di rimpiangere le sue parole. «Non ti permettere piccola stronzetta egoista, che pensi che le cose debbano sempre andare come vorresti.»
    Probabilmente di già il lupo era pronto a saltarle addosso, ma si bloccò stupito quando il cappello gli volò via di testa e nella fontana, colpito da qualcosa proveniente dalle sue spalle che rotolò poco più in là, appena fuori dal campo visivo della ragazza. Il cambio nell'espressione dell'animale fu così rapido e totale, che avrebbe scatenato uno scoppio di ilarità in Alice se non fosse stata ancora arrabbiata (e spaventata), mentre fece uscire risate in sordina tra le mani che la chiocciola ed il ragno avevano usato per trattenerle.


    «Chi cazzo ha osato?» Gridò Walter, in un crescendo di rabbia, mentre si voltava a vedere chi potesse avergli giocato quello scherzo.
    La ragazza guardò nella stessa direzione, e fu non poco sorpresa di trovarvi appoggiato a grattarsi soddisfatto contro una betulla un orso tutto vestito di stracci impolverati, che sorridente si sistemava in testa un ampio e tondo cappello di paglia.
    «Brutto schifo che non sei altro, che cosa diavolo mi hai tirato?» gli grignò il lupo, che dava l'impressione di conoscerlo.
    «Un pomodoro.» gli rispose l'altro, come se fosse la cosa più naturale ed la contempo la più simpatica del mondo.
    «Un pomod...» cominciò Walter, la cui rabbia pareva poter crescere ancora, ma poi si interruppe, come se gli fosse improvvisamente venuto in mente un qualche dettaglio fondamentale. «Non intenderai mica "quel" pomodoro?»
    «Sì, certo. Quello avevo.»
    Ora il lupo non seppe più trattenersi, e si lanciò alla carica contro l'altro animale, che non perse però il suo sorriso. Proprio nell'istante in cui la bestia furibonda spiccò il balzo letale per azzannare l'orso, questi parve perdere il suo appoggio contro l'albero e scivolò a terra, mandando a vuoto l'aggressione.

Le avventure di Alice: una giornata normale.

Author: Matteo Piovanelli / Etichette: ,


    Luce.
    La luce le bruciava gli occhi attraverso le palpebre quella mattina. Attraverso una pesante nuvola di imbambolamento e mal di testa, qualche immagine della notte arrivava fino all'Alice cosciente, ma non le riusciva di trattenerne nessuna, perchè non appena ci provava quella luce lancinante appiccava un incendio sulle sue iridi. Da farla gridare.
    E non aveva ancora aperto gli occhi: il buio dentro di lei era troppo rosso, rosso come l'oscurità non dovrebbe essere.
    Decise di alzarsi ed andare in bagno a prendere qualcosa per l'emicrania che stava cercando di ucciderla.
    Lungo il percorso un'immagine confusa e sfocata che pensò di identificare come un orologio le diede un'informazione che non si soffermò a decifrare.
    La porta della camera si presentò marrone come un enorme ostacolo ligneo, che le creò qualche difficoltà.
    Probabilmente durante la notte qualcuno aveva allungato il corridoio, perchè il bagno non era mai stato così lontano.
    E che cosa ci facevano quegli scaffali pieni di libri?
    Fermandosi a riflettere con calma, respirando profondamente, Alice incalzò la porta corretta.
    Infine, rimase per un'intera epoca a far scorrere l'acqua nel lavandino, coi capelli che le cadevano in maniera casuale tutto intorno, rifiutandosi di andarsene da soli dal suo campo visivo.
    Poi l'acqua fredda sul viso pulì un poco la sua mente, e lei potè finalmente riempirsi un bicchiere, scioglierci la medicina, bere.
    Non le rimaneva che attendere e sperare che avesse effetto. Di dormire, con i bombardamenti in corso in quegli istanti nella sua testa, non se ne parlava.
    Tornò in camera, recuperò un vestito leggero, un semplice pezzo di stoffa nera con appiccicati dei girasoli di colori rumorosi, e della biancheria.
    Di nuovo in bagno a farsi una rapida doccia fredda.
    Poi ancora la camera. Nebbie dei sogni sempre più lontani ormai, irraggiungibili. Comunque sentiva che quella notte qualcosa fosse migliorato, come se avesse avuto mille mesi per riflettere su un problema, avvicinandosi alla soluzione.
    Si avvicinò alla finestra e la vide. Capelli ondulati-quasi-ricci, di un castano dorato che non poteva essere così luminoso già di prima mattina. Non ne vedeva il volto, ma aveva appena baciato suo padre, e ora si stava incamminando verso l'anonima utilitaria pronta sul viale. Calzava sandali senza tacco, ed era vestita in modo semplice.
    «Quella...»
    «Quella...»
    «Quella... Troia. Brutta. Baldracca. Stronza.» Stava quasi gridando. Stringendo i pugni si allontanò dalla finestra per non farsi vedere da suo padre che stava chiudendo il cancello.
    «Maledetta puttana. Si è pure fermata qua, stanotte. A letto con papà. Maledetta, maledetta stronza.»
    Incazzata come una vipera, Alice aveva bisogna di qualcosa con cui sfogarsi. Un ciuffo di capelli le ciondolò davanti agli occhi. Durante e dopo la doccia il mal di testa si era un po' calmato, ma ora tornava insistente come una marea, ma veloce come un'alluvione.
    Si sedette al tavolino da trucco e aprì un cassetto. Dallo specchio, una ragazza la fissava, la bocca ridotta ad una dura linea orizzontale da qualcosa che trascendeva la rabbia. Imprecando senza parlare, Alice la guardò mentre si tagliava i capelli, e ritrovò il controllo di sè.


    Quel giorno a pranzo Alice e suo padre mangiarono un loro tipico piatto estivo. Consisteva in un'insalata fredda di tutto quello che capitava a tiro. In questo caso c'erano dei pomodori, due mozzarelle, del mais, uova sode, fontina a cubetti, olive verdi, olive nere, carciofini sott'olio, zucchine in carpione, cipolline, sedano, insalata valeriana, un po' di rucola, fagioli di almeno un paio di qualità differenti, cetriolini sott'aceto, carotine tagliate. Le mozzarelle le aveva prese papà la mattina al mercato alimentare della Città, fresche fresche. Le zucchine invece le avevano preparate assieme la settimana prima, o forse erano cinque giorni, ed avevano ormai raggiunto il giusto sapore. Tutti questi ingredienti, in pratica tutti freddi del frigo, erano stati tagliati quanto necessario, mischiati con olio aceto e sale in una grossa terrina, e poi divisi in due terrine diverse, una a testa per Alice e il padre, che le vuotavano aiutandosi con abbondante pane scongelato in microonde per l'occasione, visto che si erano dimenticati di comprarne di fresco. Da bere acqua dal frigo, perchè con quel caldo a nessuno dei due andava di bere altro a pranzo.
    A tavola il padre di Alice commentò sui suoi capelli.
    «Bello il nuovo taglio.»
    «Grazie pa'.»
    «Come ti è venuto?»
    «Ho preso le forbici, ho fatto sciak sciak un po' qui un po' lì e...»
    Suo padre rideva. «No, ok, ok. So come funziona. Intendo, come mai li hai tagliati.»
    «Ehm... Boh... Così...» Sorriso ad occhi chiusi e mille denti per non pensare alla risposta.
    «Ah beh... Comunque hai fatto bene, mi piacciono così. E poi con il caldo che fa sopportarli lunghi come prima doveva essere diventato pesante.»
    «Già.» Poi Alice ebbe uno sprazzo di masochismo. «Come è andata ieri sera?»
    «Benone, direi. Matilde è una gran persona. Penso che piacerebbe anche a te, se mai decidessi di conoscerla.»
    Dolore freddo da qualche parte attraverso una scapola. «Ma boh... Immagino mi sentirei di troppo, con voi due. Mi sembra una cosa...»
    «Non devi preoccuparti di questo. Se qualcuno deve entrare nella mia vita, deve sapere che ci sei già tu, e che questa non è una cosa che si possa cambiare. Quindi è giusto che per fare una cosa seria, lei ti conosca e valuti se vuole continuare a conoscerci entrambi o meno.»
    «...»
    «Cioè, se devo scegliere tra te e una compagna, vinci senza pensarci, e voglio che questo sia chiaro.»
    «... Grazie, immagino...» Il freddo stava cambiando colore, passando dal suo azzurro naturale ad una tinta più verde.
    «Però mi piacerebbe che tu, in un certo senso, mi aiutassi...»
    «Cosa vuoi dire?»
    (se vuoi che ti dica di lasciarla perdere e dedicarti solo a me come se non fossi tua figlia, dillo ora...)
    «Voglio dire: se tu e lei non vi conoscete, io non posso capire che intenzioni abbia, e quindi... Uhm... Non sono sicuro di saperlo dire, comunque ho abbastanza chiaro in testa quello che intendo.»
    «Credo di capire...»
    «Ottimo.»
    «Però papà...»
    «Cosa?»
    «Mangia la tua verdura, che se no si fredda.»
    «Scema.»
    «Grazie.»


    Poi fu caffè con panna spray, che nonostante fosse molto probabilmente di origine sintetica era buona, oltre a far raffreddare un po' il caffè, permettendo ad Alice di non scottarsi lingua e palato per la fretta.


    Quel pomeriggio ad Alice venne voglia di gelato, così prese il suo gatto di peluche ed andò il cantina per recuperarne uno dal freezer grosso.
    Le scale, in realtà molto solide, erano opportunamente traballanti, o forse era l'immaginazione della ragazza che gliele faceva sembrare tali per tenerle a tema con la loro destinazione. Dopo averle scese con attenzione, ma lieta per la frescura che andava intensificandosi ad ogni gradino, la ragazza fu nella stanza dai bassi soffitti a volta, coi mattoni a vista.
    Suo padre periodicamente si dava un gran da fare per pulire la cantina, ma non in maniera che sembrasse linda: lo scopo era di darle un'aria di vecchio, senza che sembrasse abbandonato.
    Appena dentro, Alice soffiò sul ripiano più vicino, liberandolo dalla polvere, e ci mise il gatto, che doveva stare lì di guardia. Aveva fatto così fin da bambina, quando aveva paura di scendere là sotto da sola, per il buio e per la possibile presenza di topi e altri mostri. Suo papà le aveva detto che i topi avevano paura dei gatti, e che non erano molto intelligenti. Poi le aveva dato quel gatto di peluche, dall'aspetto un po' inquietante, a pensarci bene, con enormi occhi gialli e la testa sproporzionata al resto del corpo, dicendole che i vari mostriciattoli della cantina, vedendolo farle compagnia, sarebbero scappati a nascondersi. Ora, mentre trovava l'interruttore ed accendeva la luce di cui aveva bisogno per proseguire nella stanza senza andare a sbattere contro qualunque cosa, quelle paure erano solo ricordi, ma l'abitudine era rimasta.
    «Tu stai qui e tieni d'occhio la situazione.» Accarezzando il pupazzo tra le orecchie, si immaginò che facesse le fusa, e ridacchiò allontanandosi.
    Passandoci accanto, Alice si fermò davanti allo scaffale che reggeva le bottiglie di vino. Cominciò a girarle una ad una, soffiando sulle etichette per poterle leggere. Alcuni di quei vini erano più vecchi di lei. Altri anche più vecchi di suo padre. L'idea che probabilmente non sarebbero mai stati assaggiati non le dava il fastidio che razionalmente sentiva dovesse darle, ma non era in grado di spiegare il perchè. Un ragnetto dalle zampe lunghe e sottili ed il corpo tondo scappò via lungo la trave dalla bottiglia che aveva appena rigirato, un Roussette de Savoie vecchio di sei anni.
    «Chiedo scusa signor Ragno.»
    Dopo un attimo l'animale non fu più in vista.
    Tornando alla ragione per cui era scesa in cantina, la ragazza proseguì fino al freezer, spalancandolo. Ora doveva affrontare la solita ardua decisione: cono, coppetta o ricoperto? Ognuno aveva vantaggi e svantaggi, ed erano tutti troppo buoni per escluderne a priori. Questa volta la scelta cadde su una coppetta alla fragola: il caldo le avrebbe sicuramente fatto cadere il ricoperto, e colare il cono.
    Aveva appena richiuso lo sportello, quandò un'illuminazione le fece cambiare idea: avrebbe mangiato un cono alla crema, stando seduta in cantina per evitare il caldo esagerato del pomeriggio. Detto fatto, fece lo scambio di gelati col freezer, e ci si sedette sopra per gustare il proprio.
    Finita la sua merenda, Alice se ne rimase ancora un po' lì dov'era a gustarne il ricordo. Poi tornò verso le scale per recuperare il gatto e congratularsi con lui per l'ottimo lavoro. Andando, gettò un occhio verso i vini: il ragno si stava piano piano calando sulla stessa bottiglia.
    Mentre saliva la scale, la ragazza ancora ne rideva.


    Prima di cena Alice si era già fatta una doccia, ma quella sera la stanchezza e il sonno non le bastavano per sfuggire dall'afa, una enorme bestia malvagia ed ingombrante che andava ad opprimerla in ogni angolo di casa. Per cercare salvezza decise di farsi un bagno, bello fresco, nella sua vasca del suo bagno.
    Il suo bagno non era il più vicino alla camera da letto, nè quello rinnovato più di recente, nè il più grande, nè quello con la vasca più comoda, nè quello con l'idromassaggio. Tutte queste erano caratteristiche del bagno che usava suo padre. La vasca era semplice e nello stesso antiquato stile della casa, messa da una parte, sotto una finestra, ma non proprio attaccata al muro: era una di quelle vasche senza muratura. Non era molto grande, ma neppure la ragazza lo era, quindi ci stava comoda comunque. La tubatura della doccia saliva come lo stelo di un fiore d'ottone da uno dei lati stretti, quello da cui i piedi di Alice potevano controllarne il funzionamento o sradicare il tappo dal fondo. Quando necessario, una tenda di una plastica fastidiosa a righe poteva venire fatta scorrere su un tubo che correva ad ovale sopra al vasca, in maniera che se lei si voleva fare la doccia non doveva poi asciugare tutta la stanza.
    Ora la tenda era appesa, ma tutta raccolta e legata dietro allo stelo della doccia, in modo da non dare fastidio. Un asciugamano era steso a mo' di tappeto di lato, e quando avesse finito il bagno Alice ci avrebbe messo i suoi piedi bagnati, per evitare di produrre una scomoda pozzanghera.
    La ragazza era immersa fino alle spalle in acqua fresca e profumata, ma non troppo profumata se no l'avrebbe potuta nauseare, ed aspettava di sentire che l'afa non sapesse più dove raggiungerla. Non aveva bisogno di lavarsi, grazie alla doccia di poco prima, quindi se ne stava semplicemente distesa a godersi la frescura, dimentica del caldo provato due attimi prima e di quello che avrebbe probabilmente provato più tardi. Stava solo lì, senza pensare a nulla, lasciando che i pensieri facessero da soli i loro soliti giri nella sua testa, formandosi in immagini, combinandosi, fondendosi, scappando gli uni davanti agli altri. L'unica cosa che le interessava era la sensazione pacifica che l'essere immersa le dava, contro la turbolenza del caldo eccessivo e del sudore. Così Alice prese un respiro più grande e si immerse del tutto.