PROLOGO - Un ritorno inaspettato

Author: The_Dreamer / Etichette: , ,

La città, ogni città per essere obiettivi, è sempre confusa e in qualche modo caotica. Selenia, il gioiello delle città imperiali, non era assolutamente da meno.
I vicoli e i ciottolati erano perennemente gremiti di gente, e nella città la promiscuità razziale era oramai all'ordine del giorno.
Nei tempi antichi era difficile vedere elfi camminare tra gli uomini, o gruppi di nani sulla piazza centrale, intenti a discutere sul rincaro del carbone.
Non che la convivenza forzata fosse idilliaca, anzi, spesso era l'esatto contrario.
Recentemente le piccole comunità di elfi insediatesi pochi anni apprima si sentivano risentite e aggredite dagli umani, a causa dei danni che essi stavano causando alla cascata del Nivrot e di conseguenza alle foreste che quell'acqua aveva alimentato da sempre, i Boschi Neri, foreste millenarie conosciute da tutti come la sede delle più grandi città elfiche.

Oggi era giorno di mercato, ma a causa di una protesta organizzata dal Popolo (come gli umani definiscono grossomodo tutto quello che abita nei boschi) le bancarelle erano ancora chiuse nonostante il sole fosse già alto, e un gran numero di persone attendeva di poter accedere alla piazza, chiusa da un cordone di elfi, grossomodo un centinaio, legati con pesanti manette l'uno all'altro.
“Lasciate in pace le nostre foreste!” urlava una donna nel gruppo
“State uccidendo la nostra gente!” gli faceva eco un'altra
Ma nessuno nel mucchio degli astanti pareva interessato. Piuttosto, molti di loro si lamentavano del ritardo con cui avrebbero aperto le bancarelle, su quanto poco la milizia cittadina facesse per tutelare gli interessi dei cittadini e su come gli elfi fossero quasi malsanamente opposti al progresso.
La deviazione della cascata aveva in effetti privato i Boschi Neri di molta dell'acqua necessaria al loro sostentamento, ma la maggior parte della popolazione era ignara dell'accaduto o semplicemente non era interessata al destino dei suoi abitanti.
Le ore passavano e la milizia ancora non si era mostrata, ma un paio di ore dopo il mezzodì l'aria fu riempita da uno strano odore. Alcuni dei presenti lo descrissero poi come “come un odore di pioggia...quando ci sono lampi e fulmini”.
Un potente schiocco risuonò nell'aria, seguito poi da uno scoppio azzurro. Una bolla traslucida apparve a mezz'aria, per poi atterrare tra la folla che, spaventata e sorpresa, si aprì, liberando uno spazio circolare.
A poco a poco, mentre la bolla si andava dissolvendo, al suo interno presero forma una dozzina di figure, tutte avvolte in tuniche di diversi colori. Man mano che esse diventavano più visibili, la tensione tra la gente aumentava e, seppure molti lo avessero già capito, ancora si rifiutavano di crederlo.

Maghi.

Quando la bolla fu sparita, la folla si spinse ancora più in là, aumentando lo spazio tra loro e i nuovi arrivati.
La ragione del timore instillato dai maghi era del resto comprensibile.
Quindici anni prima, una ribellione tra la gente, che gli storici definiscono come “Rivolta dei Pezzenti”, riuscì a soverchiare la magocrazia di Selenia, aiutata da gruppi di avventurieri mercenari e dagli eserciti dagli occhi a mandorla dei regni dell'est di In'jan. In un ultimo, disperato tentativo, Karhioss, l'allora Arcimago e governante, riunì un consiglio di dodici potenti incantatori e condusse un rituale scellerato che squarciò il tessuto stesso della realtà, trasportanto il Palazzo Arcano, la sede del governo e dell'Accademia Arcana chissà dove nell'universo. Le conseguenze furono tremende.
Gli edifici e le case nel raggio di cinquecento metri dal Palazzo vennero schiantate da una poderosa onda d'urto, incenerite da fiamme di un innaturale azzurro o in qualche modo lanciate in aria da una qualche mistica e malvagia energia. Quel giorno i maghi erano definitivamente spariti, il loro disinteresse per le faccende dei cittadini dissolto. Selenia poteva finalmente rinascere e espandersi, come aveva fatto in questi anni.
Ma ora molti, sopratutto tra gli anziani, temevano un ritorno alle origini, e gli stessi giovani, che più e più volte avevano sentito raccontare le storie di quell'epoca buia in cui chiunque non fosse un mago viveva come un mendicante, erano intimoriti.

La bolla era ora dissolta e i dodici erano serrati a cerchio, spalla contro spalla.
“La Traslazione è andata bene, Fratello Archeos, ma credo che le coordinate fossero errate. Questa non sembra affatto la piazza del governo.” disse uno dei maghi rivolto al suo vicino
Dodici paia di occhi scrutavano i dintorni, analizzando ogni dettaglio, indugiando particolarmente sugli elfi incatenati a cerchio.
“Pare che siamo arrivati al momento sbagliato, Fratelli” disse ad alta voce quello che era stato chiamato Archeos “Non ricordo di elfi a Selenia, né tanto meno in atteggiamenti tanto plateali. Quindici anni senza la nostra guida e il popolo si è ridotto a commedianti...sporchi villici”
“Archeos!” disse un terzo in mezzo al gruppo, abbassando il cappuccio “Ti ricordo che siamo qui per parlamentare. Il tuo atteggiamento non aiuterà certo.”
Il mago che aveva parlato sembrava il più anziano tra di loro, non aveva capelli né barba e profonde rughe solcavano il suo viso, come fossi scavati da un'aratro. Questi si distaccò dal gruppo, muovendo qualche passo in direzione del cordone degli elfi. Al suo passaggio gli avventori del mercato si scansavano con furia, spingendo e sgomitando, come se la sola vicinanza potesse essergli letale.
Si venne a creare un canale di vuoto tra i maghi e gli elfi, una figura geometrica così affascinante che, di sicuro, aveva un qualche significato mistico.
L'anziano alzò una mano e sollevò tre dita: “Aken-thos, Popolo dei Boschi” disse “Vi saluto nel nome del Collegio Arcano. Il mio nome è Varimatras”
“Aken-thos a te, Varimatras” rispose un elfo dai lunghi capelli color rame “Ma non ti concedo il beneficio del mio nome. Potresti stregarmi.”
“Non mi importa cosa tu credi di me, elfo. Non ho tempo per mostrarti le mie vere intenzioni. Devo sapere dove è ora la sede del governo.” replicò il mago.
“Perchè lo chiedi proprio a me, umano? Perchè non a uno di loro?” sbottò indicando con il braccio incatenato la folla.
“Perchè loro ci temono, e temo che la nostra sola presenza sia troppo per loro. Voglio evitare il conflitto, così come i miei fratelli. Dobbiamo vedere l'attuale reggente”.
L'elfo annuì, comprensivo, quindi, rivolgendosi a lui in elfico, sussurrò “Nella folla, alcuni sono armati, credo abbiano dei sassi e dei bastoni. Non fategli del male.” Varimatras fece segno di comprendere. “E portatemi con voi. Ho anche io delle faccende da discutere col reggente. Vi guiderò fino al palazzo e cercherò di farvi da garante in città.”
“Tu? Non credo che il primo incontrato possa essere un buon pacere, senza offesa ovviamente” ridacchiò Varimatras.
L'elfo fece un mezzo sorriso e fece scattare il polso. Con un sonoro “click” una delle manette si aprì, permettendogli di liberare l'altra mano. Fece due passi indietro e recuperò uno zaino e vari oggetti gettati lì in terra, tra cui un liuto. “La gente apprezza la mia musica. Sono conosciuto e ben accetto in città. Non ho ancora ben chiare le vostre intenzioni ma sento di potermi fidare di te Varimatras. Il mio nome è Varael, ma la gente mi conosce come Sussurro”

I due si guardarono per qualche istante, mentre la piazza si faceva sempre più silenziosa. Poi, lentamente, Varimatras e Sussurro si riunirono agli altri maghi, e il piccolo corteo iniziò a marciare a passo svelto verso Piazza dell'Oro, la sede del Palazzo Imperiale.

Conrad il druido - 8 (Il consiglio druidico)

Author: Jager_Master / Etichette: ,

“Fratelli carissimi”. E si fermò, lo sguardo calato a quella radura, con centinaia di facce all’insù, nel silenzio più profondo, interrotto solo dallo scoppiettare della legna fra le fiamme.

“E’ una gioia immensa rivedervi tutti, anche se questa volta il nostro compito è più gravoso che mai”.

La voce giungeva a molti passi sotto di lui, chiara e limpida. Il canalone ventoso portava un effetto strano, quasi amplificato, tanto che chiunque parlasse da lassù sembrava fosse a distanza per porgerti la mano. Eppure la figura di Conrad, osservando dalla radura, non era che una sagoma frastagliata. Ma nessuno ci fece caso, era la normalità di ogni consiglio, e la rupe regalava anche di queste cose (non era da escludere, peraltro, che una parte di questo riverbero sonoro fosse opera di Conrad stesso).

“La natura” - continuò il Maestro - “ci ha dato un ultimatum, al quale dobbiamo rispondere. E in breve tempo. Tutti voi siete a conoscenza di ciò che le creature di questo mondo, e l’uomo in testa, stanno causando a questi boschi, a queste montagne”.

Si, lo sapevano. I due giovani druidi, laggiù, abbassarono un po’ il capo, come caricandosi di parziale vergogna.

“La foresta del Sud, lo sapete, è quasi sparita. I ceppi nudi sono a perdita d’occhio e campi coltivati nascono dove prima era solo pascolo di cervi. La cascata del Nivrot è stata deviata, e tutti i Boschi Neri, anche quelli più antichi, stanno morendo senz’acqua. La pazzia dell’uomo e la crescita indisciplinata di ogni nuova città seminano morte e distruzione senza che nessun nuovo albero venga piantato e senza il rispetto di ogni forma di vita animale. Invece di spostarsi in funzione dei fiumi, sono gli stessi ad essere deviati per giovare all’uomo.”

Un sommesso brusio di consenso serpeggiò nella folla. Conrad stava dicendo verità assolute.

“La soluzione, fratelli miei, non è però immediata o scontata. L’uomo è nato per dominare, lo sapete tutti. Quello che però nemmeno loro sanno, è che ci sono regole alle quali tutti dobbiamo sottostare, anche noi druidi. Le sanzioni, altrimenti, saranno durissime, e nessun druido di questa Terra potrà mai opporvisi. Sta a noi insegnare tutto questo, diffondere il sentimento di pericolo che incombe su queste pianure e di rispetto nella madre di tutti gli esseri che vivono sopra e sotto le acque. Ma vi esorto. Vi esorto tutti…”

Molti druidi sgranarono ancora di più gli occhi. Alcuni fra i lucertoloidi, padroni di una miglior vista, registrarono un Conrad a pugni racchiusi, quasi contrito.

“…vi esorto dal profondo nel cuore. Ogni decisione va portata avanti, ma non in modo violento. L’uomo deve essere educato, non costretto, a meno di essere alle strette. Chi è educato, rispetterà per sempre, chi è stato costretto rispetterà le decisioni prese per la propria generazione, in attesa che antichi problemi risorgano con i figli dei figli, e noi stessi dovremo ricombattere la stessa battaglia fra cent’anni. La mia proposta, fratelli, è di decidere oggi i tempi per cambiare questo Mondo, e di farlo con il benestare dell’uomo, non con il suo capo chino. Il consiglio, da ora, prende la parola”.

Indietreggiò, e sparì alla vista dei druidi.

Ora, la parola passava al Consiglio. Dieci dei druidi più anziani avrebbero avuto parola, ed a semicerchio lo fecero discutendo per tutta la notte. I restanti druidi ascoltarono in silenzio, come spettatori ad uno spettacolo in piazza. Furono sviscerati i pro e i contro della collaborazione con l’uomo, furono fatte previsioni da qui a cent’anni, gli alberi quasi contati uno a uno. Addirittura si arrivò a discutere della prole degli scoiattoli, in un caso o nell’altro, e non si venne a capo quasi di nulla. Buona parte dei druidi, soprattutto dei più giovani, propendeva per un giro di vite, una costrizione, un periodo di magra per l’uomo che fosse da monito e da lezione.

Conrad osservava dalla sua seggiola, leggermente discostato dal semicerchio druidico. Immerso nei suoi pensieri ascoltava parte delle parole e della discussione, per poi rimuginare le conseguenze nella propria testa. Di tanto in tanto spostava lo sguardo alla folla alla sua destra. Centinaia di druidi di tutte le razze e di tutte le nazioni annuiva o bofonchiava ad ogni parola che usciva dal semicerchio, ed egli stesso leggeva negli occhi una rabbia furibonda. Alcuni dei più giovani torturavano fra le mani legnetti e fili d’erba intrecciati, quasi a scaricare una violenza repressa. Capì fin da subito che il suo parere, per quanto autorevole, non era condiviso all’unanimità, anzi.

Una parte del consiglio, invece, propendeva per un’educazione basilare nei confronti dell’umanità: leggi severe e precise sulle coltivazioni e sui disboscamenti, una recinzione meno costrittiva per l’uomo, più lenta nel portare risultati ma migliore per le conseguenze nel lungo periodo. Ma anche qui i più facinorosi opposero resistenza, obiettando che l’arroganza dell’uomo ormai non permetteva più nessun tipo di tolleranza, e che i tempi erano tali da pretendere risultati immediati.

Insomma, non se ne veniva a capo. Tanto che i toni, sempre sommessi in questo tipo di Consiglio, si accesero in poche ore: alcuni fra i druidi-spettatori si alzarono a turno per chiedere brevemente parola, sottoponendo agli anziani punti di vista sempre differenti, a volte opposti rispetto a quello che magari era appena stato discusso, rimettendo in campo le stesse carte con un’angolazione diversa.

Tutto ciò è molto costruttivo, analizzò il Maestro nella sua testa, ma non avrebbe portato ad una soluzione pacifica, se alcuni punti fermi non fossero stati accettati da entrambe le parti.

Thof gli passò accanto, leggero e quasi comico nella sua mole, ma rispettoso di un rituale che non lo vedeva partecipante: aveva sotto il braccio una grossa fascina, legata alla bene e meglio. La pose (non la buttò) accanto al fuoco, e cominciò a distribuire i grandi pezzi di tronco lungo l’arco del falò, con una precisione da fuochista che incantò Conrad. Sembrava che Thof volesse essere invisibile, come un’ombra, un’ombra di due metri in verità, o un maggiordomo di grande esperienza.

Si incantò qualche minuto nell’osservare il Minotauro che continuava la sua opera di alimentazione, perdendosi con lo sguardo nel crepitare delle fiamme. Poi si risvegliò dal torpore, drizzò la schiena e alzò una mano.

Quasi tutti si voltarono, e pochi istanti dopo le voci cessarono una dopo l’altra.

Conrad si alzò e fece qualche passo, fino ad entrare nel semicerchio dei saggi, anch’essi voltati ad osservare i movimenti del Maestro.

“Per oggi credo si sia detto molto, forse troppo. Vi chiedo di andare a riposarvi qualche ora, nell’attesa di continuare questa discussione domani mattina, sperando che il molto o il troppo si trasformino in stretto necessario. Perché è questo quello che serve, in realtà, non un’accozzaglia di voci e grida”. Il suo sottile messaggio arrivò a bersaglio, e molti druidi tolsero lo sguardo dal maestro.

“Riflettete tutti questa notte. È importante, anzi…vitale, che un’intesa venga trovata in questo Consiglio, e che anche le distanze maggiori vengano colmate. E in fretta. Vi auguro un sonno chiarificatore”. Detto questo si voltò, e scese dal soppalco che sovrastava il prato del consiglio. Si diresse nella boscaglia, seguito con lo sguardo da Thof e da quasi tutti i druidi.

Sparito il Maestro, la folla si diradò in rigoroso silenzio. Tutti i druidi presero congedo per andare a riposarsi, chi nella boscaglia, chi seduto su una roccia, chi in un letto di foglie.

Giusto per la cronaca, vi rivelo che fra i tanti, ci fu anche un druido di razza draconica, che decise di riposarsi lassù, in cima alla rupe. Nessuno, tranne Thof, se ne accorse. Aprì le possenti ali e si librò alto, e in pochi battiti atterrò fianco al fuoco.

Naturalmente non si poteva, ma Thof che era di cuore buono, salì lassù, con la sua brava fascina sotto il braccio. Lo vide, questo giovane drago. Lo vide sonnecchiare fianco al fuoco, forse inconscio della bravata.

“Scendi, ragazzo” disse sottovoce il Minotauro.

Il drago si voltò di soprassalto, colpito da quella voce profonda. Credendo di essere solo, si trovò sprovvisto di parole per giustificarsi.

“Io…” disse, prima di essere interrotto.

“Scendi. Thof no spia”.

Il draghetto rimase in silenzio qualche attimo, poi capì. “Si, grazie”, disse soltanto e in un battito d’ali sparì nella notte, per ridiscende a più consoni livelli.

Thof dall’alto lo guardò, finchè la notte e la vista non glielo nascosero.

Poi sorrise divertito, prese la fascina con il braccio nodoso e la gettò nel fuoco, che rispose vigoroso.

Stette un attimo ad annusare la notte, zufolando qualche nota. Giusto pochi minuti, prima di tornare al lavoro.

Conrad, laggiù nella boscaglia, mosse il capo ritmicamente, senza aprire gli occhi. “La ballata dell’Unicorno”, sussurrò a se stesso. E ne rise sollevato.

Conrad il druido - 7 (Il consiglio druidico)

Author: Jager_Master / Etichette: ,

Conrad entrò, inconsapevole del proprio inseguitore, all’oscuro di cosa stesse facendo il suo fido Chek, mentalmente aperto e pronto al nuovo Consiglio Druidico della Seconda Era, Anno 3222.

Entrò nel cerchio, e s’incamminò per il pendio scosceso che portava alla rupe centrale, dove già lo stavano aspettando molti dei suoi vecchi amici e colleghi. Il sentiero ciottolato scendeva ripidamente, quasi a strapiombo. Aggrappandosi ai rami con le grosse mani, Conrad si fece strada, aggregandosi poco più avanti ad un paio di druidi, anch’essi sulla stessa strada, anch’essi che scendevano pian piano tenendosi a rami ed arbusti. Due umani, a prima vista decisamente giovanili. Non li conosceva, né mai li aveva visti in tutta la sua vita, ma c’è da aggiungere che sono anche numerosi i druidi che ogni anno si accingono ad entrare nel consiglio druidico, e non è raro trovare molti visi nuovi assieme a quelli già conosciuti.

Li salutò educatamente, ed essi risposero al saluto, voltandosi nella discesa per sorridere al nuovo compagno. Poi ritornarono alla discesa, attenti a dove poggiavano i piedi.

Sbrigate le formalità, anche Conrad si concentrò sulla strada, calcolando che da quel punto mancava non più di mezz’ora di cammino per arrivare alla rupe.

La discesa terminava su una pianura, con rari alberi sparsi nelle vicinanze e una folta foresta in lontananza. Oltre quella foresta, sbucava all’orizzonte una punta di roccia, la cosiddetta Rupe del Consiglio, dove ogni 27° luna dell’anno si teneva il Consiglio Druidico.

Terminata la discesa, Conrad si concesse un morso di mela, e si sedette. Gli umani non si voltarono nemmeno, e iniziarono la passeggiata lungo la radura, come niente fosse. Strane bestie gli umani, pensò il mezz’orco: vivono in comunità, fondano paesi e castelli, ma non sanno vivere in società. Si azzuffano per poco pane e si dichiarano amore eterno. Morirebbero per una donna, ma fuggono di fronte al dolore. Studiano e imparano come pochi altri al mondo, ma scordano le principali regole di vita, come questi giovani druidi.

Ma avranno tempo per scoprirlo. O meglio, sorrise fra se Conrad, lo scopriranno fra poche ore.

Si alzò, e seguì in lontananza i due giovani umani, che confabulavano animatamente, ampliando la discussione con vaghi gesti e risa sguaiate. Un atteggiamento tipico dei giovani, pensò Conrad. Da quel momento non gli prestò più molta attenzione, aveva altro a cui pensare.

Viaggiavano a circa mezzo miglio di distanza, ora. I giovani a passo veloce, Conrad che lentamente perdeva distanza dai due. Ma non aveva fretta, aveva bene in mente i tempi giusti, e si concesse di vagare col pensiero, annusando l’aria che si stava scaldando ai raggi del sole. Era sempre contento di partecipare al Consiglio, perché aveva anche l’occasione di passare per questi luoghi, dove piede…umano non poggiava quasi mai. L’erba era alta fino alle ginocchia, lucente e precisa nei milioni di fili verdi tutti paralleli uno all’altro, lanciati verso il cielo, come soldati ritti all’adunata. Anche gli alberi sembrava godessero di questa pace, aperti al sole e rigogliosi fin nel più piccolo ramo.

Chissà per quanto, pensò. E subito un’aura scura gli coprì la mente, rigettandolo in più cupi pensieri.

Rialzò la testa qualche minuto dopo, quando la volta degli alberi che circondavano la rupe gli aprirono la vista sul pezzo di roccia più imponente che occhio umano abbia mai visto.

Lanciata al cielo, quasi volesse staccarsi da terra, la rupe si stagliava oltre gli alberi, grigia come il manto del lupo della neve, scolpita che sembrava opera d’uomo. E invece era opera della Natura, che come ben si sa, ha mano certamente più capace e saggia. Superava i trecento piedi d’altezza, e solo tramite un’arrampicata laterale, si poteva raggiungerne la cima.

Osservò la punta della Rupe, parandosi gli occhi dal sole con la tozza mano, poi si diresse verso gli amici, che come ogni anno gli stavano venendo incontro.

Tese mani, abbracciò spalle forti, parlò a visi saggi e potenti. Ed ogni volta era come respirare aria nuova, come mettere il naso nella più grande biblioteca che si conosca, annusando la polvere dei libri antichi. Un brivido di immortalità e potenza invadeva le vene, e si sentiva più forte. Più felice. Più tutto.

In particolare, fu lieto di abbracciare Thof, un Minotauro dall’aria sognante. Era il guardiano del circolo, l’unico che durante l’anno viveva nel territorio druidico, ma non era un druido. Il suo compito era quello di tenere in ordine la rupe e tutti i boschi del circondario, nell’attesa dell’anno nuovo e di un nuovo consiglio.

Era un po’ (possiamo dirlo, non ne avrà a male) il passatempo preferito di ogni druido. Parlava poco e capiva ancora meno, ma era di una simpatia rara. Metteva allegria ad ognuno dei partecipanti al circolo, ed era un vero e proprio portento soprattutto con lo zufolo.

Lo trovò, come sempre, seduto ai piedi della rupe, con un nugolo di druidi attorno. E tutti battevano le mani mentre Thof soffiava deciso nello strumento a fiato, dandosi il tempo col piede e saltellando come un giullare. Suonava e suonava finché gli spettatori non si stufavano. Fosse stato per lui avrebbe suonato per giorni, non si stancava mai.

Conrad si fece strada fra la piccola folla di spettatori, e attese che Thof finisse il suo pezzo, che fra l’altro era il preferito del mezz’orco: “Ballata dell’unicorno” era il titolo dato dal Minotauro, e Conrad la trovava irresistibile.

Ascoltò paziente, quasi sognante, dopodiché approfittò della pausa nel finire della canzone, e si avvicinò a Thof.

“Thof, vecchio furfante, non mi saluti?”
Il Minotauro spostò lo sguardo in direzione della voce e si aprì ad un largo sorriso quando riconobbe Conrad. Posò lo zufolo e lo abbracciò calorosamente.

“Thof felice, Conrad. Bene?”

“Si, sto bene”, rispose il druido, sempre più felice di abbracciare il vecchio amico. “Me la risuoni, Thof? Ne ho sentita solo metà”.

“Sicuro” disse il suonatore, e si voltò per riprendere in tutta foga il suo strumento. Diede tre colpi a terra con lo zoccolo, e ricominciò la ballata. Questa volta anche Conrad si unì agli applausi, e accompagnò con essi tutta la canzone, dando il tempo alla melodia.

Era invecchiato, Thof, si vedeva. I suoi due metri di altezza non nascondevano i segni della vecchiaia, e qualche cicatrice rivelava che non aveva passato un anno tranquillo. Osservando le poderose braccia del Minotauro, però, Conrad capì che anche chi gli aveva fatto quelle cicatrici era probabile che non lo avesse raccontato a molta gente.

Passarono le ore, accompagnate dalla favolosa musica di Thof e giunse il crepuscolo. Con esso arrivarono anche tutti i ritardatari. Ora i druidi erano quasi quattrocento, provenienti da mezzo mondo, o forse dal mondo intero. Qualcuno aveva viaggiato per giorni, altri per settimane. Ma ognuno aveva negli occhi la stessa voglia e la stessa forza di partecipare a questo raduno.

I tre Fuochi del Consiglio vennero accesi, grazie anche al lavoro di Thof che aveva accumulato legna abbondante in tre grossi mucchi. Legna sufficiente per tenere accesi gli enormi falò per una settimana almeno. Il più grosso venne acceso in cima alla rupe, e da quel momento la luce nel cielo segnalò l’inizio dell’evento più importante dell’anno. Almeno per questi boschi.

I visi di tutti i druidi erano in quell’ora rivolti all’insù, rapiti dalle fiamme che si lanciavano al cielo, spezzando il blu della notte in rivoli rossi e gialli. Lo spettacolo era maestoso, da togliere il fiato. Sembrava che il Dio della Terra dovesse uscire da un momento all’altro da quella rupe, a poggiare la sua mano su ogni cosa sottostante, spalleggiato da quelle fiamme incredibili che bruciavano la roccia.

E in effetti, qualcosa di molto simile accadde.

La cerimonia iniziò, e dalla cima della rupe apparve la figura che tutti i druidi stavano aspettando: l’ombra nera si stagliò sulla punta, spaventosa quanto meravigliosa con quei rivoli di fuoco che coprivano lo sfondo e saettavano ovunque, frastagliandone la sagoma.

Ogni druido in quel momento abbassò il capo, inginocchiandosi al Maestro, che per i giorni a seguire avrebbe condotto i fratelli durante tutto il Consiglio. Anche i due giovani uomini erano a capo chino, lontani da quella figura nera, che forse non avevano ancora riconosciuto.

Da lassù, Conrad aprì le braccia, stupendosi come ogni anno di quanto fosse piccolo il mondo, guardandolo dall’alto.

Conrad il druido - 6

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I Faglihm furono gli unici Elfi nella storia del nostro mondo che furono sopraffatti dalla loro stessa essenza di vita. E’ un capitolo talmente unico nella Storia, che vale la pena raccontarlo prima di continuare.
La Natura, la madre di tutto ciò che nasce e cresce sotto le fronde degli alberi, uccise in una sola notte tutti gli Elfi d’Argento: madri e figlie furono soffocate e affogate dalle verdi invisibili mani, nell’esecuzione più silenziosa che la Terra ricordi.
Un’intera famiglia, un’intera millenaria stirpe fu sopraffatta da acqua e foglie, sterminata nella più efferata e precisa esecuzione che nessun assassino immaginerebbe mai. Occhi spalancati nel sonno urlarono silenziosi alla luna, mentre bocche aperte al dolore furono soffocate dalla stessa aria che da sempre dava la vita ad ogni elfo, ogni pianta e ad ogni animale.
Nessuno raccontò mai di quella notte, perché ogni figlio del bosco in quelle ore volse la testa dall’altra parte, cieco di propria volontà, sopraffatto da tanta potenza e tanta tremenda risolutezza.
Nessuno alzò la testa, anche gufi e volpi tennero chiusi gli occhi. Ogni animale notturno passò quelle ore nella propria tana e anche i cespugli sembrava dormissero. Chi potè, trattenne anche il respiro. L’aria pesante e irrespirabile causò respiri affannosi anche a chi in quei momenti fu risparmiato, i lampi trafissero il cielo da est a ovest senza sosta mentre l’elettricità fece vibrare la superficie dell’acqua e i rami degli alberi. La paura stessa, sembrava stesse prendendo forma.
Non cadde nemmeno una goccia, anche se le nuvole grigie che sovrastavano il bosco pareva aspettassero solo di rovesciare secchi di acqua nera sul mondo. La sensazione era di stare in una palla elettrica, pronta ad esplodere e spaccare in migliaia di pezzi ogni cosa, ogni essere. Ogni elfo.
Ma nulla di tutto questo avvenne: l’esecuzione fu invece silenziosa. I rami entrarono nei letti, le acque del lago sopraffecero le sentinelle, le foglie soffocarono ogni bocca. L’aria, come ho raccontato, fece il resto.
Nessuno vide mai coi propri occhi la fine dei Faglihm, e nessuno tantomeno se ne ribellò. Ciò che la Natura sceglie, la Natura fa. In poche ore fu distrutta una catena di generazioni, nessun Elfo Argenteo sopravvisse e nessuno ebbe a rammaricarsene, ovviamente.
La mattina successiva, il silenzio lasciò spazio al cinguettio e ad una leggera pioggia primaverile, che sembrava lenire le ferite elettriche della notte. Pian piano l’intera boscaglia si svegliò e le tane si svuotarono; le fronde alzarono al cielo i rami, e i caldi raggi del sole penetrarono nel verde.
L’intero villaggio Faglihm, solo quello, restò in silenzio. I cadaveri ancora nei letti, gli occhi aperti al cielo, qualche mano spenta che spuntava da fitte coperte di foglie. Un’epoca di orecchie a punta si spense in quel momento.

Ma non tutto quello che ho narrato è verità. Non sono stato preciso.
Uno solo quella notte fu risparmiato.
La strage degli elfi malvagi serbò un posto in vita per un solo orecchie a punta. La famiglia argentea ebbe in effetti ancora qualche anno di vita, per poi scomparire per sempre.
Perché la Natura lo lasciò vivere, è ancora un mistero, che rimarrà credo senza risposta.

Sono passati ad ora 292 anni da quella notte, e quell’elfo ancora vaga per i boschi. Nessun compagno, nessun contatto umano, dicono anche che non abbia voce. E per quello che sappiamo di lui, può anche essere vero.
Che tipo sia nessuno lo sa, e nemmeno cosa cerca. Sopravvive da anni nella stessa maglia di morte che ha soffocato la sua famiglia, camminando su sentieri che ancora odorano di esecuzione. Le foglie stesse, raccontano ancora quella notte, se si sta qualche ora ad ascoltare in silenzio.
Una cosa però possiamo dire di lui.
Uccide.
Uccide senza pietà, uccide chiunque egli voglia, senza scopo apparente, coperto dalla Natura stessa che sembra quasi dargli riparo e sostegno in ogni suo movimento. Inspiegabilmente ha la mano del proprio esecutore sopra di se, in segno di protezione. E dato che nessuno sa, nessuno gli si avvicina.
Il Figlio del Bosco, alcuni lo chiamano, ma Atholas è il suo vero nome, e 292 anni dopo quella notte, entra oggi nel cerchio druidico. E nessuno se ne è accorto.
Ah no, questo voi già lo sapete.

Le avventure di una Gallina - Capitolo due: Di nuovo liberi

Author: Apo / Etichette:

Yaya e Mauro furono rinchiusi nella prigione in due celle lontane in modo che non potessero comunicare. Nel frattempo Miguel si preparava al suo discorso d'insediamento.

Il giorno seguente gli sgherri di Miguel costrinsero tutti gli animali a riunirsi in assemblea.
Miguel: "Hola animali, yo soy Miguel el nuevo capo de esta fattoria"...gli animali erano ammutoliti...
Miguel: "Da oggi inizia una nueva era por voi animali... saretei miei schiavi...voi produrrete per nos otros cibo e armi... il mondo es il mio ultimo obiettivo"...nessuno osava parlare...."nos otros lotteremo per conquistare todos il mondo... tutte le fattorie saranno sotto il nostro controllo. Se qualcuno ha qualcosa da obiettare può venire quando vuole..la sua pratica avrà assoluta priorità."
Gli animali erano terrorizzati, anche perchè erano minacciati dalla Gang del Bosco.

E fu così che iniziò un duro periodo per gli animali della fattoria, che accettarono di diventare schiavi di Miguel pur di riavere le loro mogli. Una delle stalle fu completamenyte riorganizzata e trasformata in una fabbrica di armi... dove Temistocle, il toro gestiva la produzione.

Nel frattempo Yaya continuava a pensare sul da farsi, erano ormai due settimane che era rinchiusa e gli animali avevano perso la fiducia...nessuno poteva ne vederla ne avvicinarsi alla prigioen e qualcuno iniziò pure a pensare che fosse morta. In realtà Yaya non si era arresa, stava seguendo un piano ben preciso. L'unica persona che poteva avvicinarsi a lei era Paco, lo sgherro di Miguel, che le portava da mangiare una volta al giorno e lei aveva elaborato un piano perfetto.

Mauro invece non sapeva che fare... era Herman a portare da mangiare a lui e non gli sembrava semplice prenderlo alla sprovvista. Per di più erano 3 settimane che non beveva, da prima della sua partenza...e come tutti sanno i cammelli due settimane te le reggono e poi sbiellano.

Una sera Paco andò come tutti i giorni a portare da mangiare a Yaya...
Paco: "Orca vacca donde està la gallina?"...Yaya non c'era più..."se lo scopre el padròn me taglia la poya in un istante"
Paco aprì così la cella di Yaya e si mise a cercare sotto la paglia su cui lei dormiva.
In quel momento sbucò Yaya...si era appesa al soffitto, infilando la punta delle zampe in due buchi che aveva scavato nel soffitto....proprio per quello le ci ea voluto così tanto. Yaya zompò giù e atterò Paco.

Yaya " Prova ad urlare figlio di puttana e giuro che ti stacco i coglioni e ti costringo a mangiarli...."
Paco deglutì spaventato.
Yaya "Dimmi che cazzo succede la fuorì"
Paco spiego il tutto a Yaya... che lo prese e lo legò.
Yaya "Ora lurido stronzo vi fotto tutti. Voi e le vostre cazzo di mire espansionistiche dimmerda."
Detto questo gli riempì la bocca con una palla di fieno, gli infilò il calcio del suo fucile su per il culo e si dileguò nella notte.

In quel momento Herman stava uscendo dalla cella di Mauro. Appena uscito dalla prigione Yaya gli fu addosso e lo addormentò con una manciata di sterco di gallina (nella sua cella ce n'era parecchio)....gli rubò le chiavi e corse a liberare Mauro.

Mauro "Yaya!!!"
Yaya " Si lurido stronzo...io a farmi il culo e tu a tirarti le seghe qua dentro eh?"
Mauro "Ma io..."
Yaya "Tu un cazzo.... sei andato una settimana a ciulare e fare un cazzo mentre io ero qua a farmi il culo... e ora che c'è da tirar fuori le palle tu stai qui a fare una michia."
Mauro accusò il colpo....
Yaya "Sbrigati ad uscire da li che mi servi"
Mauro "Come cazzo hai fatto a liberarti Yaya?"
Yaya "Io sono furba...non passo il tempo a menarmelo come te...." disse mentre prendeva corde, coltelli e tutto quanto potesse esserle utile dal gabbiotto antistante la cella... "svegliati che stanotte si dorme nel bosco, dobbiamo fare in fretta."
Si girò e vide Mauro tremante e ansimante in un angolo....
Yaya: "MA STRONZO!!! IO MI FACCIO UN CULO COSI' PER SALVARTI E TU PER PRIMA COSA TI FAI UNA SEGA?!?!?! MA SEI PROPRIO UN COGLIONE...PUTTANA QUELLA TROIA CHE HA APERTO LE GAMBE PER FARTI NASCERE..."

Ma in quel momento ecco delle voci in lontananza... la Miguel insospettito dal ritardo di Paco aveva mandato un gruppo in ricognizione.
Yaya: "Guarda che coglione..mi fai incazzare e moh ci hanno scoperti...."
Mauro: "Ho io la soluzione seguimi...."... Mauro rientrò nella cella e sposto un enorme ammasso di merda di cammello che c'era in un angolo.... sotto di questa c'era un buco...
Mauro: "Anche io stavo pensando di fuggire e questa era la mia idea.... solo che ogni tanto mi fermavo a menarmelo un po'."
Yaya: "Si ma checcazzo...io studio piani stupendi e tu invece mi scavi un tunnel coprendolo di merda?! Ma sei proprio un idiota...dai scappiamo." I due si infilarono nel buco e lo percorsero... arrivati alla fine mancava ancora qualche metro all'aria aperta.
Yaya: "Levati dal cazzo" .... e si mise a scavare sfruttando le sue zampe...più adatte allo scopo di quelle di Mauro...." se non ci fossi io saresti perso..."
In breve i due furono all'aperto e fuggirono nel bosco appena in tempo per non essere scoperti dai membri della Gang del Bosco.
I nostri eroi erano nuovamente liberi e più incazzati che mai...forse la fortuna non aveva ancora abbandonato del tutto la fattoria....

Junkie

Author: Matteo Piovanelli / Etichette: ,

Essere un paria non è male, se si hanno le sostanze giuste.
SiHead lo sa.
Essere un paria è il paradiso, se ti pagano perché tu abbia le sostanze giuste.
SiHead ne gode.

Esci di casa, fatti degli amici, sei uno sfigato, testa di silicio.
Parole da un milione di anni prima. Ma già in quel medio evo, lui sapeva. E così prese a correre, per prendere le sue distanze. Ma non correva sulla strada, lui, correva sui manuali. E correndo è arrivato in quella stanza, nel complesso Hitachi. Una stanza che puzza di arance e Marlboro, come la vecchia California della celluloide (non avete letto Gordon Legge, immagino?). Solo schermi e led lampeggianti illuminano il letto spoglio, un materasso su una rete. Un robot mandato dai capi, giù in quell'Oriente così estremo che ci si arriva andando ad ovest, mantiene l'igiene sopra livelli pericolosi.
Dallo stesso posto arriva tutta l'elettronica che ingolfa quella stanza del seminterrato. Roba che non si trova in nessun negozio. La prima scelta, la massima qualità. Tutto solo per SiHead, perché lui sogni. E ancora ci mette le mani per renderla più forte: ci fa la sua magia, e poi gli arriva qualcosa di nuovo, perché la sua sostanza continui a colargli nel cervello. E non solo: la stanza è la più grande del complesso, e dentro SiHead ci tiene di fatto una fab per processarsi tutta l'elettronica che gli serve: da Tokyo gli mandano la materia prima, e lui pensa al resto. Non ce ne sono tanti in giro come lui.

Ma cosa fa SiHead?
Secondo qualcuno, magari, è solo un runner. Un emarginato, perché si è venduto anima e corpo alla Hitachi. Loro hanno lui, e lui ha quello che sa fare col deck. Quello che ha bisogno di fare col deck.
Molti lo definirebbero deck-junkie, un drogato del cyberspazio, perché quella è tutta la sua vita, e nient'altro. E fuori delle griglie colorate della non-realtà lui si sente niente e nessuno, e pensa solo al momento in cui tornerà nel niente sintetico.
Secondo quelli dell'Hitachi, è una risorsa: uno dei migliori runner in circolazione, completamente ossessionato dal progetto su cui l'hanno messo.

Per spiegarvi cos'è questo progetto, devo passare da altro.
È difficile, ma provate ad immaginare l'immensa mole di dati che approda sulle nostre retine in un secondo di navigazione. Con uno sguardo potete raccogliere tutto ciò che la vostra banca sa su di voi, e tutto quello che voi potete fare con la banca, ed intanto stato seduti ad un tavolo da tè con cinque amici, ognuno dei quali appare in maniera completamente diversa, in una stanza i cui poster sono animazioni interattive della band che vi piace in quel periodo. E questo se non vi impegnate.
Non voglio diventare troppo tecnico, ma questo è possibile perché queste informazioni arrivano come segnali tutti in contemporanea, differenziati in frequenza e fase. Se non è chiaro fidatevi.
Possono esistere infinite diverse combinazioni per passare dati nel cyberspazio, ma agli inizi se ne sono scelte alcune, in maniera che fossero tutti d'accordo, perché se io trasmetto in un modo che tu non puoi ricevere, e viceversa, la Rete diventa inutile (di fatto smetterebbe di esistere). È come con una radio: le stazioni trasmettono su frequenze diverse, e voi scegliete quella che ascoltate. Per la Rete è già stato scelto su quali frequenze ascolterete, ma potete scegliere il programma.
Non c'è nulla di fisico, però, che vieti diverse frequenze e fasi, ed infatti i militari e le Megacorp hanno delle specie di cyberspazi “privati” basati su questo, dove (l'avverbio di luogo è improprio, ma questa lingua è nata da troppo per essere adeguata) i loro dati sono al sicuro da chiunque abbia dei deck convenzionali. Nel “nostro” cyberspazio ci sono i bruscolini: informazioni per lo più false messe lì come specchietto per le allodole, o pubblicità e rumor utili ai loro fini.
Non è complicato ritoccare i deck commerciali, ma se non lo sapete già fare, per il vostro bene è meglio che non ve lo insegni, o finirebbe che mammina dovrebbe pulire le cervella che sono colate fuori dalle orecchie. Non siete il FlatLine, e non provatevi ad emularlo.

Arriviamo al progetto di SiHead.
SiHead lavora su uno di questi cyberspazi. Uno privato della Hitachi. Quello che deve fare è entrare ripetutamente nei loro archivi, sfondando i loro firewall e qualsiasi protezione possano mettere. Lui non lo sa, ma gli I.C.E. lì sono fatti in maniera da dargli una scossa senza ucciderlo. Non si buttano le risorse ancora utilizzabili. Un'altra cosa che fa è testare i deck che gli mandano, e se possibile migliorarli. Se pensate che la legge di Moore significhi qualcosa in questo settore, potete scordarvelo, perché perdere tempo a starle dietro significa morte aziendale sicura.
Una cosa che SiHead sa è che ogni volta le protezioni degli archivi sono simili alla volta precedente, ma non identiche: una I.C.E.-mine è proprio sulla porta che aveva sfruttato, o la porta non esiste affatto. E ogni volta ci va un po' di più a trovare una strada sicura: ce l'ha sempre fatta, senza essere mai fritto. È convinto che loro non lo sappiano, ma lui sta scrivendo e migliorando ogni volta un programma che lo aiuti a passare illeso. Ovviamente lo sanno.
E ovviamente lui non sa che le protezioni sono un firewall adattivo, che ogni volta impara dai propri fallimenti e si migliora. Qualcuno pensa che della sinergia tra il programma di SiHead e questo firewall possa venire fuori un'intelligenza artificiale, visto che di fatto i due stanno giocando al gatto e al topo, ed ogni partita causa un salto evolutivo. Il programma di SiHead ha il vantaggio che oltre alle euristiche ha un runner sulle spalle ad insegnare, per cui fin qui ha sempre vinto. E non è un runner qualunque: a quattordici anni, se non fosse fottutamente asociale, si sarebbe potuto sedere al tavolo dei cowboy, e pretendere gli pagassero da bere.

Domanda: a che cosa ci porta tutto ciò?
Niente. Niente di niente. I capoccioni all'Hitachi al momento non sanno che farsene di quell'intelligenza artificiale. Nessuno in effetti è sicuro che una vera intelligenza artificiale possa sorgere da un processo simile. Stanno provando per vedere che succede, e nel frattempo migliorano le protezioni dei loro mainframe. Ricerca pura incidentalmente al servizio di un fine, se vogliamo.

Questo mi ricorda un poco di come sono nate le prime neurointerfacce, ed il primo I.C.E.. La prossima volta che mi paghi da bere, ragazzino, magari ti racconto quella di storia.

The Net - Introduction to Crystal

Author: The_Dreamer / Etichette:

L'anno è il 2020.
Il nome della donna è Crystal.
Il resto? Dettagli insignificanti, futili e caducei, niente di fronte alla perfezione e immortalità del digitale.

In qualsiasi momento, se il tuo deck* era connesso e tu interfacciato via neuro-link* alla rete, non dovevi fare altro che aprire il menù SEARCH FOR sull'interfaccia* e digitare il suo nick.
Crystal, appunto.
Nessuno conosceva il suo vero nome, nessuno sapeva se fosse davvero donna...alcuni arrivavano a dubitare perfino che esistesse.
Certo, il bello della Rete è proprio la mancanza di un'identità indefinita, con la possibilità di personalizzare il proprio avatar virtuale, chiunque può essere chiunque, come disse il grande cowboy Rache Bartmoss.
In ogni caso, Lei tendeva ad assumere sempre lo stesso aspetto, perfetta, sinuosa, sensuale.
Alcuni la amavano pur sapendo che, forse, era un ciccione enorme, o un depravato qualunque.
Ma la amavano non per la sua interfaccia virtuale, ma poichè lei era LA Netrunner*.

Immaginate ora il Cyberspazio. Per citare il maestro, essa è un'allucinazione consensuale vissuta ogni giorno da migliaia di operatori legali e non, da bambini a cui vengono insegnati i più elementari concetti matematici, in ogni nazione. Una rappresentazione grafica dei dati ricavati dai banchi di ogni computer del sistema informatico umano. Impensabile complessità. Linee di luci allineate nel non-spazio della mente, ammassi e costellazioni di di dati. Alberi e case di funzioni e logaritmi. Una complessità impensabile.
E nel mezzo Lei, che con eterea semplicità si muoveva al suo interno, senza difficoltà alcuna nell'interpretarli, comprenderli...riscriverli da zero.

Non l'avevano mai presa, nemmeno una volta. Prima o poi capita a tutti i Netrunner, dicono. Vuoi strafare, esageri con un virus o ti inserisci in un sistema...bè diciamo poco pulito e...zac.
O per mano della NetWatch* o per mano di yakuza* dal grilletto facile, una scottata te la prendi.
Sempre che non ti vada peggio...ora...tu non sei un Netrunner e quindi immagino che tu non sappia cosa sia un I.C.E....bè, hai presente lo spinotto che ci mettiamo in testa per volare? Ecco...da lì un ICE ti può friggere il cervello...un programma studiato per uccidere i ficcanaso con una scarica diretta di corrente.
La sedia elettrica virtuale.

In ogni caso...Crystal conosceva queste cose, ma mai, mai e giuro mai una volta aveva rischiato, nonostante compisse alcune delle azioni più rischiose nella rete.

E poi, vederla in azione era fantastico...
Una volta la vidi nella proiezione di Central Park.
Non so cosa ci facesse lì, ma di sicuro non era un viaggio di piacere. Vicino a lei c'erano tre grosse icone digitali, dei quali uno era sicuramente un altro 'Runner, forse al soldo di una Megacorp*.
Capite...quando sei un 'Runner e le 'Corp non ti piacciono, tendi a pestargli molto spesso i piedi. Il grosso problema per noi, oltre alle rappresaglie fisiche, sono anche quelle digitali.
Comunque, dicevo, questi tre grossi tizi. Non potevo sentire cosa dicessero, parlavano su di un canale schermato e io non riuscii ad accedervi ma diavolo se meritava lo spettacolo!

Dopo qualche secondo il 'Runner corporativo apre l'interfaccia e fa partire un paio di programmi. Ragazzi, è sempre fantastico vedere i pixel che si assemblano a formare un Mastino*! Questi cosi a forma di cane le saltarono addosso, andando a schiantarsi dritti dritti sui firewall personali, esplodendo in mille pixel lampeggianti rossi!
Poi, con un paio di veloci comandi di interfaccia, Crystal si buttò a lato e fece partire un flatlineatore* nella sua direzione...in un mezzo secondo, l'interfaccia virtuale del tizio si dissolse.
Credo abbiano trovato il cadavere qualche mese dopo, a Tokyo, il cervello esploso.

Eh sì...la Rete ha proprio qualcosa di magico.

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Deck = l'equivalente di un computer molto avanzato, di solito a controllo vocale o neurale

Neuro-Link = sistema di interconnessione diretta tra deck e cervello dell'utente

Interfaccia = menù di debug usato per l'hacking dai Netrunner

Netrunner = i cowboy della rete, abili nell'infiltrazione telematica dei sistemi

NetWatch = la polizia della rete, operatori governativi contro i 'Runner

Yakuza = la mafia giapponese

Megacorp = multinazionali tanto potenti da controllare direttamente i governi locali

Mastino = virus ad alto tasso infettivo, attacca i dati frammentandoli in sezioni più piccole e cancellandone alcune a caso

Flatlineatore = il massimo per i 'Runner, un programma simile a un ICE, in grado di colpire e azzerare l'ECG del bersaglio, se connesso a un deck. Il nome deriva dalla linea piatta dell'ECG (flatline, appunto)

Pep

Author: Jager_Master / Etichette:

Kenyon riappese la cornetta del citofono, dopodiché andò a spegnere la tv che in quell’istante stava trasmettendo il meteo serale. Prima di premere il tasto off cliccò rapidamente su 5/6 tasti di canali in fretta e furia, giusto per uno zapping compulsivo che era solo istinto di un vizio comune; le immagini si mossero rapide e senza un significato prima che spegnesse definitivamente. C’era altro a cui pensare.
Controllò attorno a sé che il mini appartamento fosse in ordine...o meglio: controllò che in giro non ci fossero aggeggi compromettenti o cose inutili. Non che non si fidasse di Pep, ma sappiamo tutti come sono i messicani, curiosi ed impiccioni.
Sì, decise che la sala era in un accettabile ordine, ed a passo lento andò solamente a chiudere la finestra che dava sul complesso residenziale. L’aria fresca della sera andava bene solo per una sigaretta, e già se n’era fumata una poco prima, mentre attendeva l’arrivo di Pep. Anzi, nemmeno se l’era finita perché la spense sul davanzale quando lo vide arrivare e andò subito ad aprirgli col citofono (Pep non aveva la combinazione, non essendo inquilino del complesso Hitachi).
Prima di staccarsi dal davanzale fece solo in tempo a vedere il ragazzino del piano di sotto che arrivava a razzo con il suo trabiccolo, infilandosi nel portico sotto casa assieme a Pep. Ma non era importante che il suo complice fosse stato visto da qualcuno: primo perché non era riconducibile a nessuno e a niente, e secondo perché il ragazzino lo conosceva bene, ed era uno che stava con la bocchia chiusa. Tutti lo erano, all’Hitachi. Ad ogni modo nessuno lo avrebbe visto uscire.

Tre tocchi alla porta e Kenyon aprì a Pep senza nemmeno guardare dallo spioncino. Basso e coperto da un giubbotto nero, Pablo Pespe era un messicano di circa un metro e settanta, poco meno. Rasato alla meno peggio, sembrava appena uscito da un film di Zorro, se non fosse che alla sua epoca Zorro non aveva giubbotti.
Entrò senza dire una parola, salutò solo con un cenno del capo, e taciturno si sedette sul divano centrale. Buttò un occhio in giro, mentre Kenyon chiudeva a doppia mandata la porta usando anche il chiavistello superiore. La casa era ordinata e abbastanza grande per essere di uno Yankee squattrinato e di bassa levatura sociale, ma Kanyon sapeva il fatto suo e la cosa non stupì più di tanto Pep, che dimenticò in fretta l’abitazione e si concentrò sul complice.

“Ti ha visto nessuno?”
“No, solo un ragazzo con la bici. E’ entrato anche lui nel palazzo”
“Lui è ok, come un pò tutti qua dentro”
“E allora perchè chiedi?”
“Così. Meglio essere sicuri”
“Se lo dici tu. Comunque, parliamo di cose serie: spiegami tutto”
“Una cosa alla volta. Vuoi da bere?”
"Che hai?”
“Credo solo birra” e andò verso il minifrigo. Lo aprì e lo sportello regalò un pò di luce all’appartamento buio. Kenyon ci rovistò dentro con la testa e ne uscì con due lattine da 33, della solita Krup Beer, una sottomarca della peggio specie. Ma andava bene, almeno era fresca. Ne lanciò una a Pep che l'aprì con gesto secco delle dita.
Trangugiarono un lungo sorso a testa, e senza togliere lo sguardo dal messicano Kenyon aggiunse: “E’ un gioco da ragazzi, almeno per te”.
“Prima voglio sapere tutto, e poi deciderò. Non è per sfiducia, hombre, ma nel mio lavoro è meglio un'informazione in più che una in meno”.
Kenyon sorrise. Sapeva che il messicano aveva ragione, ma si divertiva a vederlo guardingo e professionale sull’argomento. A vedere quel piccolo messicano non gli avresti dato un dollaro, e invece. E la cosa lo divertiva abbastanza.
Smise comunque di sorridere e si sedette di fronte a Pep.
“Va bene, stammi a sentire. Si tratta di questo tizio”
Dalla tasca tirò fuori una serie di polaroid in bianco e nero, tutte riguardanti un uomo di razza bianca, altezza media, pettinato con la figa. Nelle foto saliva o scendeva da un’auto, oppure sedeva in un bar o stava ad una fermata dell’autobus. Evidentemente Kenyon lo aveva pedinato per diverso tempo perché in alcune era avvolto in un cappotto, in altre era in polo e calzoncini. Si chiese da quanto tempo gli stava alle calcagna, ma non proferì parola, annuendo solo col capo. Era importante ascoltare bene, riordinare le idee e chiedere alla fine.
Kenyon continuò. “34 anni, impiegato della Gate Insurance Corporation, convivente, niente figli. Abita a una ventina di Km da qui, ti darò poi indirizzi e numeri utili”.
Pep continuò ad annuire, osservando meccanicamente le foto, alcune anche più volte, ritornandoci e confrontandole all’americana, come fossero monetine.
Kenyon si appoggiò al cuscino e proseguì nella sua presentazione dell’obiettivo. “Ha passato la sua vita in quella Compagnia, sempre la solita routine, sempre i soliti clienti, poi casa tv e poco altro. Un uomo di merda. Non che ce ne freghi granché ma da qualche tempo ha deciso che la sua squallida vita può cambiare e ha ficcato il naso dove era meglio non mettercelo. Non so se rendo l’idea”
Pep alzò per la prima volta lo sguardo da quando era iniziata la spiegazione. Incrociò gli occhi di Kenyon, che dietro la lattina che sorseggiava erano immobili e più neri del normale.
“Si, capisco” disse, e ritornò alle fotografie. Girò la lampada da tavolo verso di sé, e premendo col dito sparò il fascio di luce verso il grembo, dove teneva le polaroid. Ora la sua concentrazione era tutta sul volto dell’uomo.
“Che te ne pare?”
“Rischi?”
“Praticamente zero, a parte vicini e parenti, è una persona neutra. Neanche i suoi clienti gli dedicano più di un saluto”
“Allora può sparire”
Kenyon sorrise, Pep si era convinto.
“Quanto tempo ho?” chiese il messicano.
La sala si fece più buia ancora, e l’aria dell’appartamento spirò da diversi pertugi facendo scricchiolare ante e mobilia.
“Una settimana. Fatti i tuoi giri, e poi chiudi la cosa. Lo sai che Lui non vuole attendere troppo”
L’aria era elettrica, frizzante. Ma paradossalmente calda.
Pep si passò la mano fra i nuovi capelli con la riga, accarezzandoseli in fare pensoso.
“Va bene” disse. Poi sorrise, raccolse la ventiquattrore che prima non aveva e si alzò, gustandosi il suo metro e ottanta d’altezza. Abituarsi ormai era cosa facile, tempo di scendere al primo piano e già sarebbe stato a suo agio. Dopo anni, questo lavoro era una seconda pelle. Letteralmente.
Si lisciò la pelle rasata di fresco, godendosi il preciso lavoro che solo un assicuratore abitudinario poteva aver fatto. Se ne rallegrò, gli piacevano i clienti puliti.
Andò alla porta, aprì il chiavistello. Poi si girò verso Kenyon.
“Una settimana”. Gli ricordò Ken, senza alzarsi dal divano. “Ah, Pep”.
“Si?” disse il messicano, con già la mano sulla maniglia.
“Stai perfettamente, così. Sei sempre il migliore”.
“Lo so”.
Aprì la porta ed uscì, senza salutare.

Kenyon rimase solo, a meditare su quello che era appena accaduto. Ormai la cosa non lo faceva ammattire come le prime volte, ma Pep gli dava comunque la pelle d’oca. Nel contempo si sentiva parte di un progetto immenso, importante ma intimorito. Intimorito da quelli come il messicano, ed il fatto che Pep fosse il migliore non lo metteva certo a proprio agio.
Finì in un solo sorso la lattina e la gettò nel lavello. Seduto sul divano non poté non pensare all’assicuratore, a quello che lo aspettava.
Strano cliente questa volta, un paradosso: un venditore che si trova ad affrontare una trattativa più grande di lui.

Come tutte le volte si ritrovò a pensare all’incontro fra Pep ed il cliente. Ci pensava ogni volta, ma non riusciva ad immedesimarsi in nessuna delle due parti, anche perché non sapeva bene come si sarebbe svolta la cosa. Nessuno partecipava mai, nessuno aveva mai visto Pep in azione.
Però sapeva.
Sapeva che avrebbe dato un braccio piuttosto che essere al posto di quell’uomo. Pep era famoso per non usare mezze misure, e sperò che l’assicuratore fosse accondiscendente.
Non lo fosse stato...beh.

Però lo avrebbe capito. D’altra parte, non è facile per nessuno incontrare Sé stessi.

Corporation

Author: Matteo Piovanelli / Etichette:

Un altro giorno:
“La nostra azienda” dice quello più vecchio, che sembra sempre sul punto di sbavare un poco e ha lo sguardo del predatore sessuale sotto dei capelli ingrigiti e diradati, “si occupa in poche parole di tutoring per specialisti del settore dell'intrattenimento, in particolare per i media classici come televisione e radio. Siamo degli agenti, se vuoi, ma i nostri compiti vanno oltre la cura dei contratti: forniamo il servizio di sicurezza, organizziamo la logistica, diamo insomma ogni tipo di supporto di cui i nostri clienti abbiano bisogno.”
Lei è dall'altra parte del tavolo. Trema e suda sotto la camicetta di seta. I boccoli di rame le cadono sugli occhi mentre fissa la bocca aperta di quello che parla, e tenta di gettare occhiate a quello più giovane, che finora non ha aperto bocca neppure per salutarla. Sta lì elegante all'inverosimile, coi capelli spettinati da poco da un parrucchiere omosessuale, la sedia un po' scostata indietro per lasciare la scena a quello più anziano, probabilmente tra i due più alto nelle gerarchie.
Quello intanto continua così: “E con noi lavorano professionisti in ogni campo: musica, televisione, cinema, teatro, arti visive, intrattenimento per adulti.” Pausa. Uno sguardo di vittoria rabbiosa. Lei non sa più contenersi e scappa fuori dalla porta.

Un'altra ora, prima:
Lei è in un bagno unisex. Lui ha chiuso la stanza e la guarda, e lei chiama cattiveria il suo sguardo, ma non sa come muoversi, si limita a tremare tra le mani di lui, e pensa che dovrebbe dibattersi e gridare, ma non sa come fare, e lui le dice che quello è il vero provino, non quello di prima, e la spinge in ginocchio, e si cala la zip dei pantaloni, le forza la testa. E lei piange, ma non si osa a singhiozzare.
Dopo, sempre quel giorno:
Ha corso e corso, senza sapere la strada, spalancando porte e gettandocisi attraverso. Nessuno ha dato la benché minima impressione di accorgersene o sembrare stranito. Ha corso e corso, finché è incappata in un'aula e c'era tutta sta gente ai banchi, come a scuola, ma tutti ben vestiti, e i cappotti appesi ordinati sui ganci lungo la parete con le finestre alte. L'han guardata, ma poi sono ritornati ai loro fogli e alle loro matite, senza fare un rumore. Che altro poteva fare se non cadere in un angolo e piangere, cercando di non disturbarli, e nascondersi sotto le mani e i ricci?

Poco prima:
A lui basta uno sguardo e l'altro sa che non tornerà a casa per cena sta sera, né l'indomani.
Non si sa quanto dopo (anche se non è passato molto pare di sì):
Lui entra nell'aula. Quello giovane. Senza degnarla di uno sguardo parla a quelle persone che si comportano come studenti perfetti. “Uscite di qui.” Non ci sono accenti, e la voce è proprio bella e calma. Quelli semplicemente posano le matite, si alzano, recuperano i cappotti e escono. Lui guarda l'ultimo chiudersi la porta alle spalle, poi si avvicina alla cattedra (c'è una cattedra, e un telo bianco per le proiezioni) e scosta un poco la poltrona del posto del professore, girandola appena verso di lei. Poi va alla parete dei cappotti e premendo un pulsante le finestre cambiano colore e c'è parecchia più luce nella stanza. Adesso lui si stira in un raggio di sole poi va a a prendere una sedia, la porta di fronte alla cattedra, ma girata verso la classe, e ci si siede cavalcioni, ossia verso il telo per le proiezioni e la sedia scostata.
Lei ha smesso di piangere e lo guarda tra i capelli e le dita, senza capire.
Lui continua quel che fa, qualunque cosa sia. Si allarga la cravatta, se la leva, la mette ben dritta sulla cattedra, apre i primi due bottoni del colletto.

Circa un mese prima:
Lei ha appena finito di interpretare Ofelia nella versione mezzo-musical di Amleto del suo liceo, ed ora si sta cambiando e struccando dietro le quinte. Quando è uscita sul palco per inchinarsi e salutare, sua madre piangeva.
Intanto la professoressa che ha curato la regia sta parlando con una donna in tacchi e tailleur blu scuro, e le getta sguardi frettolosi. La donna ha i capelli di una miriade di tonalità di biondo raccolti dietro la nuca. Quei capelli inspiegabilmente hanno l'aria di essere naturalmente di quel colore e non tinti. Quando stringe la mano alla prof, inforca un paio di Ray-Ban dal taglio classico, e stranamente non sembra un poliziotto.

Ancora quel giorno:
Lui è bello, ma non in modo appariscente. Non ha niente che spicchi in modo particolare, eppure lei è curiosa quando le chiede se vuole per favore andare a sedersi davanti a lui. Non sa perché, né si chiede perché, ma si alza e va a prendere posto a quella sedia che lui le ha preparato.
“Ti posso assicurare che non vedrai mai più quell'uomo.” Nella voce non c'è compassione, non un fremito di comprensione. Sta esponendo dei dati, come se le dicesse quanto ha piovuto in India con l'ultimo monsone, e il tono non accenna a cambiare, né a vibrare anche solo per un attimo. Se parlasse appena più veloce lei potrebbe perdersi qualche parola, ma così come sta facendo ciascuna è scandita perfettamente.
“Capirei se tu non volessi più considerarlo, ma noi vorremmo davvero lavorassi con noi. L'abbiamo già deciso quando ti abbiamo vista alla recita. Chiaramente non posso farti pressioni. In effetti preferirei parlare d'altro, visto che mi pari scossa.”
Per un attimo lui guarda la cattedra, e sembra leggere qualcosa nel blu tinta unita della cravatta. La mano di lei sposta un suo ciuffo che pendeva tra i due, ma lei non ne è conscia.
“Silvietta. Da quanto tempo vi frequentate?” Lei ha appena il tempo di cominciare a mancare un respiro, perché lui non aspetta una risposta. “State assieme, no? Però, non saprei, non mi pare tu sia troppo convinta.”

Mesi prima, d'estate:
Lei e Silvietta sono appena andate a correre assieme: han deciso di iniziare assieme ed in anticipo la preparazione per la stagione, e visto che i genitori dell'amica sono in vacanza passeranno qualche giorno assieme a casa sua.
Lei è la prima ad andare in bagno per farsi la doccia, e come sempre ammira la vasca immensa dell'idromassaggio. Si è appena spogliata e ha messo i vestiti sudati nella borsa che si è portata apposta da casa. Apre la porta della doccia, entra, chiude, apre l'acqua calda. Silvietta entra nella stanza e comincia a riempire l'idromassaggio, senza dire niente. Apre la porta della doccia, entra, chiude l'acqua. Lei è presa di sorpresa, e lo sguardo dell'amica le chiede di non parlare mentre l'altra comincia ad accarezzarla e baciarle via il sudore di dosso, intanto portandola fino alla vasca.

È passato giusto il tempo di rabbrividire, quel giorno:
“Giocate entrambe a calcio, vero? Ma in due squadre diverse. E tu sei centrocampista e mezza-punta. Il 10 penso sia un numero un po' pesante da portare, non trovi anche tu? Eppure mi pare di capire che ha sempre dato buoni risultati nel tuo ruolo. Goals e assists, anche se mai da fare il salto di qualità.” Per la prima volta lei si chiede chi mai sia questa persona, e capisce ufficialmente che quello più anziano non era il suo superiore., e comunque pensa che sia proprio bello.
“Lei è portiere, e tra due settimane giocate assieme. Immagino te le abbia promesse.”
Lui riprende in mano la cravatta e la guarda un poco come una cosa aliena rigirandosela qua e là, prima di rinfilarla. Lei non riesce a non seguire i suoi movimenti.

Solo il giorno prima:
Lei e Silvietta sono nude sotto le lenzuola. L'amica, che è più alta, ha i capelli corti con una frangia e ha meno seno, le sta coricata sopra e gioca con le ciocche che lei ha sempre sul volto. Il sorriso è quello di una persona esuberante sempre e comunque, con tante energie emotive da sembrare un piccolo sole vagante. Lei si chiede come finiscano sempre così, a letto assieme, anche se lei non sente di averlo mai desiderato. Il suo corpo le dice che le piace, ma lei non sa se ascoltarlo.
“Tra due settimane preparati che non vedi palla.”
Lei chiude gli occhi, gira la testa da un lato e si limita a sospirare. L'altra probabilmente fraintende: le scosta i capelli e le sfiora l'orecchio con le labbra. Parla e la mordicchia delicatamente. “Ho detto alla numero 3 di pensare solo a te, e piuttosto di morderti. Hai presente la 3, quella che chiamiamo Stam.”

Quel giorno, immediatamente:
“Non sto per farti una domanda, né una richiesta. Prendilo come un ordine: tra due settimane vincerai. Prima non voglio tu decida niente riguardo a noi e al nostro lavoro, il mio e il tuo.” Lei si limita a fissarlo, e lascia che un boccolo le dondoli davanti agli occhi per un bel po', senza sapere cosa farci. Lui le fa una domanda: “Quanti anni pensi che abbia?”
Lei risponde, e sono le prime parole che gli abbia mai detto. “Non sono brava a indovinare queste cose.”
Lui si alza, mette una mano nella giacca e prende un biglietto da vista nero e argento e i suoi Ray-Ban. Guarda le lenti, appoggia il cartoncino sulla cattedra e le dice: “Tu ne compi 18 tra due mesi.” Se ne va.

Oggi:
Sono ad un tavolo accanto alla vetrata che da sulla strada, in un ristorante al nono piano di un grattacielo newyorkese. Il sole splende sul loro tavolo riflettendosi in mille modi su posate e bicchieri, e un cameriere minorenne ha appena portato le loro ordinazioni. Lui ha davanti alla bocca la punta di una lancia di asparago, e le dice: “Sei bellissima, lo sei ogni volta che sei così radiosa.”
“Grazie.” Dice lei in mezzo ad una minuscola risata, mentre cerca di capire da che lato cominciare ad intaccare la sua omelette per non rendere il piatto meno bello.
Lui: “Avresti mai immaginato di poterti trovare qui oggi?”
Lei: “Prima, non sapevo neppure questo posto potesse esistere, né la differenza tra frittata ed omelette.” Mentre alza lo sguardo per guardarlo negli occhi, i ricci ramati saltano ovunque davanti a lui, e lei vorrebbe scoppiare a ridere.
Lui: “E pensare che solo cinque anni fa, dopo la partita, mi hai chiamato e hai solo pianto.”
Lei: “E tu per tutta la telefonata non hai parlato, e quando ho smesso di piangere hai chiuso la comunicazione” Lei sorride nel ricordare quella ragazzina che era, e si chiede che fine han fatto tutti, ma non lo vuole sapere o già lo saprebbe.
Lui: “Ma l'indomani c'ero, e anche tu.”

Quel giorno, la sera:
A casa, per l'ennesima volta lei legge entrambe le facce del biglietto: nome e recapiti da una parte, e dall'altra una scritta a matita: “I vampiri vestono Ray-Ban.”

One shot

Author: The_Dreamer /

Premessa:
Dicasi one shot per quanto riguarda una sessione di gioco di ruolo o racconto un qualcosa di molto breve. Mi è venuto in mente di dedicare il racconto ad un mercenario assorbito completamente dal lavoro. Ecco l'incipit.
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Il fumo della sigaretta si attorciglia in una sottile, eterea voluta, poco più che uno sbuffo, ma appena raggiunge le mie narici, è sufficiente a farmela desiderare.
Sputo, e sento il tacchino precotto ingollato poco fa che risale il mio esofago; il flusso caldo di vomito mi ustiona la gola, già martoriata gravemente.
Fottuti figli di puttana...io gli chiedo una sigaretta e loro mi tagliano la gola.
Odio questo lavoro...

Il mio nome è Chambers, Elmer Chambers e se mi avete incontrato, qualche volta, non vi biasimo per quello che potreste aver pensato di me.
Mi drogo per lavorare e lavoro per drogarmi, come si dice nel giro sono un "dead man walking" o uno "zombie" ma la verità è che mi sento bene.

Ci sono momenti, nella vita di un soldato, in cui vorresti chiuderti in un angolo e piangere. Non per te o per le persone che hai ammazzato...semplice valvola di sfogo quel pianto.
Io non ho mai avuto la possibilità.

Nè la voglia in ogni caso.

E' il mercato che lo esige. La reputazione per un mercenario è tutto. Puoi anche beccarti una pallottola e morire come un cane in qualche guerra-fantasma in Cambogia o Colombia e se ti sei sempre comportato da duro nell'ambiente sarai ricordato, ma pisciati addosso una volta e puoi scordarti di lavorare. Diventi una macchina a poco a poco...le cose iniziano a cambiare nome e significato. Bambini sulla linea di tiro non sono più "innocenti" ma "moscerini", per la facilità e la quantità che ne crepa con una bomba (che in quel caso chiamiamo "insetticida")
So di farti schifo, ma credimi, tu ne fai di più a me.

E' per mantenere il tuo stile di vita che ammazzo persone. E' per mantenere il tuo stile di vita che combatto delle guerre. E' per te che lo faccio.

Se qualche bambino muore nel frattempo tu non te ne accorgerai mai, a meno che qualche fottuto colletto bianco della NBC, CBS, FOX o altro decida che lo devi sapere, per piangerci un pò su e aumentare lo share.

Ma sto divagando.

Voglio raccontarti di come siamo finiti qui.

Fine prima parte

2 wheeled heart

Author: Matteo Piovanelli / Etichette: ,

Lungo Hudson Street, col tramonto a sinistra e l'acido lattico che pompa nelle cosce. Il traffico della sera che strombazza e puzza tutto intorno (maledetti taxisti immigrati e le loro carrette a gasolio). Un calcio al paraurti di un qualche idiota che esce dalla tredicesima alla cieca, senza guardarlo in faccia. Il clacson già alle spalle all'incrocio con la quattordicesima, mentre si tuffa in mezzo ai pedoni, costringendoli a scansarsi di qua e di là.
È l'ultima consegna della giornata. Ancora tre chilometri dritto sulla nona, fino quasi all'incrocio con la cinquantaseiesima, ed anche per oggi avrà finito. Non è stata una giornata pesante: poche consegne, e tutte più o meno nella stessa zona. Questo vuole anche dire che la paga non sarà altissima, ma fa il pari con il fine settimana passato, in cui aveva stabilito il suo record di chilometri.
Trentaquattresima e quarantaduesima. Ancora un chilometro.
Shane non era il più veloce della compagnia di corrieri, né il più puntuale, ma forse era quello che traeva più soddisfazione dal suo lavoro. Correre con la bici in mezzo al traffico di una metropoli era il suo piccolo sogno da quando, ancora ragazzino, aveva letto Virtual Light. Per lui New York valeva San Francisco, fintanto che poteva pedalare.
Citofono o porta aperta? La seconda.
L'ingresso del palazzo puzzava di polvere e birra dimenticata in qualche angolo. La bici bagnava il pavimento con l'acqua delle pozzanghere putride lasciate dalla pioggia della mattina, ma Shane, dopo avere gettato uno sguardo intorno pensò che forse stava facendo un favore alla donna delle pulizie.
Il corriere mostrò la spalla col badge al portiere. “Consegna al B124.” L'altro appena annuì con gli occhi, ritornando a impolverarsi dietro al suo giornale. Davanti alle porte dall'aria decadente dell'ascensore: una cartina smunta del palazzo ed un cartello di fuori servizio.
“Merda.” La fatica sui pedali gli andava più che bene, ma i gradini gli rimanevano sempre sullo stomaco. Catena all'inizio del corrimano per assicurare la bici, e poi fino al secondo piano, scivolando un poco sul metallo che avrebbe dovuto fermare la plasticaccia anti-scivolo, o forse della moquette (quelle scale avevano un'aria da moquette, effettivamente). Poi a destra, contando i numeri sulle porte, tutti pari, crescenti a destra e decrescenti a sinistra. A metà corridoio ecco il 124.
Toc toc coi guanti, fatti di un tessuto il cui nome è protetto da copyright. Dei grugniti da un punto non precisato dietro al legno. Uomo, quarantina, barba mal fatta e vestiti sporchi; puzza di sudore e birra mischiati sulla maglietta; pantofole. Invece ad aprire la porta è uno che sembra appena uscito da un'importante università di economia, infilato in un abito che ha tutta l'aria di costare più che quell'appartamento squallido. L'unica pecca sono i capelli un po' stropicciati, e forse lo sguardo spento dove ci si aspetterebbe il sorriso di un vincente.
“Una consegna per Mr. K. Ross.” Un pacco della forma di un cartone da pizza, ma più piccolo. Una mini pizza, ma più pesante del dovuto, e senza i profumi e untumi d'ordinanza.
“Sarei io.”
“Dovrei vedere un documento, se non le dispiace.”
“Certo.” Ed eccolo! Mentre infilava la mano nella tasca posteriore dei pantaloni, dove un newyorkese non dovrebbe mai tenere il portafoglio, il sorriso da vincente del vero bugiardo. Il pezzo di plastica che presenta, comunque, convince il lettore di ID, per cui Shane può dirsi soddisfatto, salutare, e tornare dalla bici e sulla strada. Stavolta il portinaio polveroso non lo degna neppure di un battito di ciglia, per non disturbare lo sporco faticosamente accumulato stando immobile al suo posto.

Il cielo sporco della metropoli promette di pisciare sulle teste dei newyorkesi ancora un po' di smog, mentre Shane pedala verso il Bellevue, ciclista e non più corriere. La radio gracchia il suo nome. È Phil Thomas, il capo, che lo cerca.
“Dimmi capo.”
“Stacchi per oggi?”
“Sì. Te l'avevo detto che era il mio ultimo giro.”
“Merda. Ne ho una comoda comoda dalle tue parti.”
“Non c'è nessun altro?”
“Per dove sei, è davvero una cosuccia comoda comoda...”
“Mi spiace capo, ma sono sul serio di fretta, ora.”
“Fanculo, devi una birra a Carmen.”
Carmen, all'anagrafe William Carmelo, per chi ancora si cura di queste formalità. Un ispanico dell'agenzia nato nel Queens da una famiglia con sangue che arrivava da ogni continente. Aveva già quel soprannome quando Shane lo aveva conosciuto, e non aveva voluto raccontargli niente a riguardo. O era gay, o era un transessuale part-time, o c'era dietro una storia più complicata e divertente.
“Il bastardo è musulmano, quindi è come se gliel'avessi già pagata. Salutamelo e ringrazia.”
“Fottiti ragazzina. Buona serata. Spero che la tua donna almeno te lo succhi come si deve.”
“Sto andando da mia madre, capo.”
“E quindi?”
A questo punto Shane chiuse la linea: che altro poteva fare?

Il Bellevue era vicino, ormai. Tagliando nel centro ospedaliero dell'università, con la notte che svogliata incombeva, ecco che si avvicinava la griglia dove il corriere assicurava la bici. I lampioni si stavano svegliando dai loro sogni diurni, perché nessun uomo potesse conoscere il buio.
La porta automatica lo stava aspettando, e si spalancò lungo le sue rotaie mentre lui le andava incontro. L'infermiera della reception sembrava la copia femminile di quell'ultimo portiere: lo stesso sguardo vuoto, come un televisore fisso su un canale inesistente; la stessa polvere, come quella su di un soprammobile di cui ci sia dimenticata l'utilità; lo stesso contegno strafottente da nullità che vuole mostrarsi superiore.
L'ascensore lasciò tutta la giornata fuori. Chissà chi avrebbe incontrato oggi in camera di sua madre: la giovane ballerina innamorata, la donna malata e consapevole, una via di mezzo... Quell'immondizia che lei aveva in testa e che stava sostituendosi al suo cervello rivelava continue sorprese.
“Mamma...”
“Shane, bambino mio! Che bello vederti.”
I capelli sciolti le nascondevano il cuscino in un'inondazione di ricci. Dalle lenzuola azzurre spuntava il suo pigiama, dello stesso colore delle lentiggini che le avevano gettato in viso da piccola.
Ecco la solita domanda idiota. Zero originalità, tutta sincerità.
“Come stai mamma?”
“Oggi va molto bene. A cena c'era un buon purè, con un arrosto decente. Tu hai già mangiato?”
“No, mangio qualcosa più tardi quando torno a casa. Torno ora da lavoro.”
“Ancora in giro in bici a portare i pacchi a spasso a fare la pipì?”
“Sì mamma. Le lezioni riprendono tra più di un mese, quindi ho tempo di mettere da parte qualche cosa.”
“Ma non ti serve davvero, con lo stipendio di tuo padre e tutto il resto.”
Suo padre era stato un ricercatore per molte aziende tra Europa e Stati Uniti. Era morto da un anno dalle parti di Parigi, nell'incendio del laboratorio dove si trovava. Shane ancora non si capacitava dei fermimmagine presi dai filmati della sorveglianza: una palazzina di due piani, poi una palla di fuoco (sfocata dal rumore elettrostatico sulla telecamera), poi pozzanghere dove prima c'era l'edificio, e suo padre sparso in una o alcune di quelle, in qualche modo fuso con tutto il resto nell'incidente. L'assicurazione aveva pagato sontuosamente, e la pensione era copiosa, ma il grosso Shane lo teneva per le spese mediche della madre. Lui si accontentava di un mezzo cubicolo che nel complesso Hitachi chiamavano appartamento, e del necessario per vivere. Per coprire le necessità di svago usava la sua paga ed il suo tempo libero.
“Non posso mica starmene fermo a fare niente, no?”
“Come vuoi... Quand'è che sei venuto qui l'ultima volta? Era ieri o due giorni fa?” La memoria scarsa era stato uno dei primi sintomi, ed all'inizio ci scherzavano su tutti e tre.
“Ieri. Passo tutto le sere.”
“Giusto. Beh, dopo che te ne sei andato è passato tuo padre. Mi ha sorpresa perché pensavo fosse ancora in Europa. Ma mi ha voluto fare una sorpresa, perché non mi aveva detto niente che tornava.”
“Quel bastardo non mi ha detto nulla neppure a me!” Tenerle il gioco, non dirle niente: quante volte l'aveva fatto, negli ultimi tempi? Mentre lei inesorabile scalava la sua parete verso la fine, sempre più spesso si immaginava questi incontri con suo padre. Shane non soffriva la sua mancanza, ma sentiva di non essersi ancora separato da lui, come se non fosse convinto della sua morte: ogni volta che incombeva l'argomento, gli saliva un nodo di acido alla gola.
“Ah, non l'hai ancora visto? Deve avere avuto qualche impegno, e non avrà voluto disturbarti solo per dirti che era in giro, così non ti sei sentito obbligato a incontrarlo sputtanando i tuoi programmi.”
“Vabbè...”
“Comunque, cosa dicevo? Ecco, mi ha detto di dirti, poi quando ti vedevo, di spicciarti a trovarti una bella ragazza, possibilmente europea, perché ultimamente aveva voglia di nipoti.”
“Cosa?”
“Così mi ha detto. Ha detto che le europee come me sono meglio delle americane, perché camminano più vicine alle loro radici. Sai come parla sempre, no? Mezzo per enigmi...”
Per un po' andarono avanti a parlare, raccontandosi la vuotezza delle rispettive giornate, cercando di infarcire il tutto per renderlo più interessante. Dopo qualche minuto, cominciarono a finire ancora e ancora sulle stesse parole: Shane si tirò fuori dal circolo vizioso augurandole la buona notte. Prima che potesse chiudere la porta, lei si era assopita.

Né un cenno del capo né un gesto della mano smossero l'infermiera alla reception, fossilizzata nel suo costume di acari. Ecco la bici, ignara della sera che stava sorgendo dal fiume. Cuffie nelle orecchie: brani tristi, brani allegri, brani infantili, vecchi successi, nuove ed effimere hit.
Via dal fiume, sulla prima, e poi in Stuyvesant Square, ad ordinare del pollo con noodles nel minuscolo locale thai all'angolo. Tutti i posti liberi, il tizio dietro al bancone che gratta le pentole. Oltre a questo c'è solo il rumore di Shane che mangia, a tenere fuori il traffico, Shane che non vede l'ora di mettere le mani sui rubinetti della doccia, a casa, e poi immergersi sotto le lenzuola col portatile sulla pancia a vedere un film. Il locale aspetta senza fretta di tornare deserto, l'acciaio dell'arredamento freddo e artificiale tutto intorno a lui, pronto a vibrare delle sue note private non appena non ci sarà più nessuno ad ascoltarlo.
Di nuovo a pompare sui pedali, alla volta del Greenwich Village e dello stupro paesaggistico che aveva di fronte: il complesso abitativo Hitachi, un numero incalcolabile di cubi di cemento incassati uno tra gli altri, cubicoli che chiamavano case; una maxi-mensa, frequentata da chi non aveva tempo di procurarsi qualcosa di vero da mangiare; stanze comuni, in cui il piano originario prevedeva bar e parchetti sintetici, ma dove stalagmiti di urina incrostavano gli angoli. Casa, per Shane, che tutto sommato non viveva male nella sua scatola grigia, che più che altro rappresentava una doccia ed un letto facili ed un contenitore per le sue cose.
Il tastierone di combinazione e citofono all'ingresso lo rattristava un poco, col suo blu tecnologia tanto sporco e consumato da parere una sfumatura tra il grigio topo ed il grigio ciminiera, col fatto che tutta l'umanità in quel casermone veniva ridotta a combinazioni di dieci cifre, sia che volesse entrare sia che la si cercasse. Un omone nero nero, le cui spalle nella vita precedente erano state il bullbar di un tir, occupava la porta sussurrando nel microfono, troppo vicino, a parere di Shane, per farsi mettere a fuoco dalla telecamera. L'aveva già visto altre volte sotto casa sua, siccome una volta aveva una mezza storia con una che abitava lì nell'Hitachi. L'aveva anche visto in giro, bazzicare per posti dove tutti sapevano potere trovare di tutto.
Al ronzare dell'apriporta, l'omone sospinse dentro la sua massa; Shane gli schizzò dietro come un'ombra, trascinandosi assieme la bici. Scambiandosi mezzo sguardo imbarazzato, un quarto a testa, entrarono nell'ascensore. Per Shane solo sette piani, un breve corridoio, e poi la pace della sua tana. Stasera non voleva fare e sapere niente: niente feste, niente locali con gli amici. Se la sentiva che era una di quelle serate da stare tranquilli con sé stessi, andare a dormire presto, riposare.
Finalmente la doccia che si era promesso. Intanto la bici si concedeva già il meritato riposo bagnando le stuoie che le facevano da letto, mentre la luce della strada attraverso la finestra percolava lenta a rischiarare timidamente il monolocale spoglio. Poi, ecco il momento delle lenzuola, fresche e piacevoli sulle gambe stanche del corriere. Per un attimo l'idea di guardare un film parve anche sensata, ma affogò rapida nella nebbia dei sogni.



Shane era nel letto. Il materasso era più grande di come lo ricordasse, lungo e largo quanto la sua stanza. Tutto era immerso in un buio particolare, un po' blu, in cui si distinguevano chiaramente le forme. Nel corridoio, fuori dalla porta aperta del suo appartamento, correva una nebbia fluorescente. Lui faticava a tenere gli occhi aperti per il sonno, ma li spalancò quando sentì che il materasso si spostava in risposta ad un nuovo peso: una ragazza si muoveva gattoni, scostando le lenzuola, senza guardarlo. Capelli corti, probabilmente chiari. Non gli riusciva di scorgerne i lineamenti, ma dove era scoperta la pelle nuda era chiara come la luna.
Shane si mise a sedere, col lenzuolo che gli cadde di dosso sulle gambe, e si accorse che sul letto c'erano molte lenzuola, tutte misteriosamente appuntate a dovere. La ragazza si spostava dall'una all'altra, sempre gattoni, e lui non sapeva ancora distinguerne il volto. Sentendosi le labbra pesanti di sonno chiuse per un istante gli occhi, per riaprirli un tempo qualunque dopo, quando lei gli si sedette sulle cosce. Guardandole la linea della schiena nuda, seppe limpidamente che avrebbe dovuto iniziare a massaggiarle il collo. Lei lasciava che la testa le ciondolasse da una parte e dall'altra, mentre le mani di Shane scioglievano la giornata dal suo collo, dalle sue spalle. Prese a muovere il bacino avanti ed indietro, sempre seduta su di lui e dandogli le spalle.

Shane si svegliò triste e con un'erezione umida. Era ancora piena notte: sbuffando si girò sull'altro fianco e si riaddormentò.

Di nuovo la stanza e il materasso erano lì trasformati. La riconobbe dai capelli e dall'odore, ma ancora non riusciva ad afferrarne i lineamenti. Erano coricati, lei sopra di lui, lui dentro di lei, lei che si muoveva avanti e indietro e da una parte e dall'altra, come un serpente che strisci, ma senza spostarsi da dove era.

Ancora Shane si svegliò, con le stesse sensazioni di prima. Trovò la forza di raggiungere il frigo per bere un po' d'acqua, prima di immergersi finalmente in un sonno immemore.

Racconto di fate sul cemento (6)

Author: la zuppa / Etichette:

Era una mattinata di scuola. Una lezione di cinema su Robert Altman.
Il cielo era ossuto, fuori dalle finestre ovali antiproiettile. Marco stracciava una rivista di musica sotto il banco. In mille pezzi, quasi esatti. Andrea non riusciva a parlare con Marco, mentre con calma provava a girare una sigaretta di tabacco disgustoso. Marco aveva delle pesanti occhiaie che gli scavavano il viso. Sembrava Kinsky in Aguirre furore di dio. Picchiettava la punta del piede contro il piede del banco. Andrea notò che aveva iniziato a mangiarsi le unghie. Gli chiese cosa stava succedendo. Notò che si stava divorando il pollice.

-tu che dici dell’ultimo di Altman? Chiese Andrea a Marco, deglutendo.
Lui la guardò storto e aprì la bocca stracciata.
-che la troietta della Lohan ora non la ferma più nessuno-
-in che senso?-
Marco smise per un attimo di sbattere il piede. E per la prima volta guardò Andrea.
-nel senso che è una che fa la reginetta in tutti i film, in ogni film. Poi diventa un’attrice matura. un’intellettuale, c’è da scommetterci. E poi.
E poi la ficcherei in un costume da velociraptor per Jurassic Park 5-.

Marco distolse lo sguardo da Andrea. Tornò a succhiarsi il sangue dal pollice nascondendo un avambraccio sotto i brandelli di rivista.
-che esagerato, mica una deve essere etichettata una volta per sempre. E poi chissenefrega, ti ho chiesto del film, mica degli attori-.
-hai ragione-.

Andrea attraversò una corrente d’odio bollente.
-cos’ hai, Marco? Ti odio quando fai così-.

-ti devo parlare- si confidò Marco.
Andrea lo guardò preoccupata, nervosa.
Marco spazzò via i pezzetti di rivista e scoprì un corpicino inerme di donna, dalle dimensioni di un feto abortito al quarto mese. Andrea trattenne un urlo acidissimo e vomitò bile silenziosamente tra le gambe. Marco le accarezzò la schiena. Strappò un’ala dal corpo del cadavere della fata e la lasciò cadere a terra, leggera.
In quel momento il freddo dei colori dell’aula di cinema sembrava quasi accogliente.

-ieri qualcosa mi seguiva. Qualcosa come questa- indicò la fata con lo sguardo -le ho filmate, sono sicuro di averle filmate tutte, queste cose-.

Andrea guardava il professore fisso tra le rughe della fronte. Non parlava. Pensava che ci fosse scritto qualcosa, tra le rughe.
-Andrea-

In quel momento sentirono un colpo sordo provenire dalla finestra. Solo Marco e Andrea si voltarono. Quando videro una fata sanguinare sul vetro, Andrea strillò. Forte. Tutti si voltarono e non capirono. Andrea chiese scusa, poi chiese scusa ancora.
Marco notò una crepa nel vetro antiproiettile.

Fate sul cemento e trainspotting

Author: Matteo Piovanelli / Etichette:

Non so se qualcuno qui ha letto trainspotting. Io lo sto leggendo in questi giorni (in lingua originale è commuovente e illegibile, cazzo di scozzesi). Non è un romanzo, di fatto, qualunque cosa si possa dire a riguardo. Il libro è strutturato come una raccolta di racconti giustapposti uno dietro l'altro senza un vero ordine. Effettivamente non pare ci sia nemmeno un ordine cronologico, nè un racconto si presenta a continuarne un altro più o meno di quello prima o quello dopo.
Questo è più o meno quello che ho in mente con le fate sul cemento. Certo, i raconti fino a qui sono spesso in ordine cronologico, e quel che succede di uno si ripercuote sui successivi. Ma l'idea di fondo è che siano solo un insieme di racconti, accomunati dai luoghi e da alcuni dei personaggi, anche se i personaggi già introdotti possono anche solo apparire sullo sfondo a dare colore.

Detto questo, me ne vado in giro.

Restyling

Author: Jager_Master / Etichette:

Ciao ai pochi che leggeranno.
Suggerito da Alan e avvallato dal sottoscritto, il sito auspica un ridimensionamento.
Che dite se torniamo allo scopo originale del blog che è quello di SCRIVERE RACCONTI e non CHATTARE SULLA NONNA DI CHI SAPPIAMO?

Proporrei di togliere immagini sceme, chat, merda e quant'altro e rimetterci a sfornare racconti più o meno decenti.
Se poi nessuno vuol scrivere...amen. O lo chiudiamo o starà fermo per un pò. Ma vedo che bovaz ci sta mettendo impegno....direi di fare come lui.

Tutti d'accordo?

Racconto di fate sul cemento (5)

Author: Matteo Piovanelli / Etichette:

Gecko


Max. Max quella notte era andato a dormire con un'arrabbiatura col mondo da doposbronza, senza essersi neppure sbronzato propriamente. Poi, era tardi, ma un po' di luce superava incolume le vecchie veneziane scrostate della camera. La fatica che non aveva fatto ad addormentarsi, sentendosi ad un certo punto colpito come da un pugno allo stomaco, ma dall'interno, fatto d'aria ed un senso di colpa immotivato. Che cazzo.

Dopo troppo poco, il caldo. Estate di merda, che si fottesse con chi aveva deciso di accoppiarla con l'asfalto e l'umido. Via le lenzuola, scalciate in fondo al letto, ma ancora niente. Fu costretto ad aprire gli occhi. Gli spiragli che davano fuori gli dissero che non era più notte, ma neppure era giorno. Che odio quell'ora, quando tutto si sveglia e tu vorresti chiuderti profondo dentro la tua testa e gridare contro quell'emicrania che senti incombere, eh, Max?
E poi, ad un tratto, il freddo. Intenso, da far gelare il fiato. Eppure non tagliava come il vento invernale, da cui nessuna sciarpa era mai sufficiente a nasconderlo. Era solo. Quasi un rumore, o forse l'ombra di un movimento al limitare del campo visivo, attrasse il suo sguardo al soffitto. Lui era lì, e gli sorrideva velenoso con gli occhi malvagi.
“Ciao ragazzino.”
Questa volta un gecko. Non più il buon vecchio serpente, ormai tristemente familiare. Se ne stava lì piccino picciò appeso al soffitto, che sembrava l'avessero disegnato lì, non fosse che era davvero troppo realistico. Si riusciva a vedere il tipico viscidume del rettile.
“Ho una piccola curiosità per te: se potessi essere appeso per tutta la mia pelle, sarei lungo dieci metri.”
Il ragazzo di limitò a deglutire, come qualche anno prima, come qualche giorno prima. Era diverso, ma era indiscutibilmente lui.
“Ho anche una notizia: i debiti si pagano. E tu mi dovevi un pegno. Ma sono stato clemente, e non ti ho chiesto nulla. Hai fatto di testa tua, mi hai deluso. E avresti dovuto pagare. Ma sai che cosa abbiamo fatto?”
“Non lo so.”
“No, non lo sai mai, inutile moccioso. Abbiamo fatto pagare a chi di vita ne aveva più di te da perdere. Voglio solo che tu sappia chiaramente che è colpa tua, della tua pretesa che niente cambiasse. Adesso dormi verme.”

Il sole era alto dietro alle nuvole e allo smog colorato. Non l'aveva strappato ai suoi sogni neri. Era stato il clamore del traffico davanti alla facciata di casa sua. L'inutile clang clang degli ingranaggi della società che andavano al loro posto sempre uguali, sempre stupidi, senza capire, senza sapere niente della macchina che facevano trascinare stanca a mangiare sé stessa.
Erano sogni? Oppure no? Fissando il soffitto sapeva dove erano state incollate le zampe della bestia, ma voleva credere che fosse successo tutto nel mondo della sua testa, come aveva voluto crederlo le altre volte.
Si tirò seduto sul bordo del letto. Mentre lasciava che i suoi piedi cercassero le ciabatte, passò il tempo a grattarsi la pancia sudata, cercando di convincersi ad alzarsi del tutto. Passando davanti al bagno ebbe l'impulso di lavarsi i denti: non ne valeva la pena, decise. Scese per fare una tarda colazione, o pranzo, o merenda, o qualunque cosa comportasse riempirsi lo stomaco. Quel pugno interiore della sera era ancora al suo posto che batteva e batteva.
Sentì sua madre che piangeva in salotto: probabilmente la stupida era sul divano che guardava qualche soap opera idiota importata dal sudamerica. E invece:
“Max, Chad, tuo cugino, è all'ospedale. L'ha investito una macchina sta notte.”

Con quanta intensità si può arrivare a maledire sé stessi? Bestemmiando, i pezzi del puzzle cadevano al loro posto. Ogni pezzo che si incastrava, un taglio profondo per Max.
Il serpente.
Un taglio.
Marlene.
Un taglio.
Le fate.
Un taglio.
Chad.
Un taglio.
Il sogno.
Un taglio.
Sua madre.
Un taglio.

Mentre contava i pezzi della sua anima rimastigli fortuitamente tra le mani, ecco Max davanti al Jourdan, l'ospedale dove c'era il pronto intervento chirurgico. Quel pomeriggio non lo fecero entrare a vedere suo cugino, che era ancora in terapia intensiva dopo l'operazione d'emergenza della notte. Merda.

Riuscì solo due giorni dopo a raggiungere la sua camera. Non lo volevano fare entrare, bollandolo come un altro della processione di tifosi all'ospedale, ma aveva avuto rapporti professionali con alcuni degli infermieri, che lo riconobbero. Contando i minuti dal primo tentativo fino a quando arrivò alla porta della stanza, aveva immaginato ucronici passati alternativi in cui fosse riuscito a non fottere la sua vita, sbattendo ogni volta la faccia contro il muro rappresentato dal presente. Se si avesse avuto davanti, si sarebbe preso a sberle forte, fino a farsi bruciare le mani.
Chad, cazzo, sorrideva. Max era diviso tra gli impulsi di prenderlo a pugni, piangere, e buttarsi dalla finestra, così stava immobile a guardarlo dalla porta, con gli occhi puntati sulla maglietta che chiedeva a caratteri cubitali “Ask me about your mom.”
“Ciao cugino.”
“Cazzo è successo?”
“Eh, lei era così bella.”
“Che cazzo stai dicendo?”
“La ragazza. Mi han detto che si è lussata una spalla, poveretta.”
“Pezzo di deficiente, tu ti sei spezzato tutte e due le gambe e ti preoccupi della troia che ti ha investito?”
“No, non dico lei. Il tizio che guidava è morto quando sono arrivati i paramedici. Poveretto.”
“Meglio così. Se l'è meritato.”
“Non dire così. Nessuno merita una morte del genere.”
“Fanculo... Te piuttosto?”
“Sono innamorato.”
Max si limitò a fissarlo in silenzio. Cos'era quella rabbia che sentiva e non riusciva a deglutire? Era venuto a vedere come stava il cugino, soffocato dai sensi di colpa, ed ora se la pigliava con lui? Ma la sua calma non poteva non dargli al cazzo...
“Ora va meglio. Prima faceva un mal fottuto, ma poi un infermiere gentile mi ha drogato e ora non sento più niente. Spero non mi cominci a prudere il ginocchio, se no con ste ingessature divento scemo.”
“Idiota. È colpa mia.”
“Ecco mio cugino: pronto a dichiararsi responsabile di ogni male del mondo, dal buco dell'ozono alla televisione. Ti sei ripreso dall'altra sera? Eri piuttosto giù...”
“No, ascolta, devi ascoltarmi.”
Max si avvicinò in un solo passo al capezzale: non sopportava più il sorriso di Chad.
“Di qui non mi muovo, cugino.”
“Sono serio, guardami. Ti parlo seriamente, o sono completamente pazzo. Probabilmente è così. C'era il serpente, che mi ha chiesto di uccidere Marlene, e Joshua, e quelli. E io ho accettato, tipo. Ho preso la spada e l'armatura, e giovedì sera sono andato al parco. Ma non ce l'ho fatta. E c'erano le fate. È colpa loro. Sono loro che mi hanno fermato. Tutti i colori, non il nero. E ieri è tornato il serpente, solo che era un gecko, e mi ha detto che era deluso. E che dovevo pagare, ma avrebbe pagato chi aveva più da perdere, al mio posto. Capisci?”
Da qualche parte nel discorso erano scese delle lacrime, e ora il ragazzo si reggeva la faccia, cercando di ignorarle. Oltre il suo sguardo annebbiato vedeva Chad che non sorrideva più.
“Cugino, sono preoccupato per te. Seriamente. Che storia è questa? Che cazzo stai dicendo?”
“Ho ancora la spada sotto al letto. Non l'ho più toccata. Non mi sono neanche osato di guardarla.”
“Per favore, Max, vai via e cerca di tranquillizzarti un poco prima di tornare.”
E Chad era serio quando lo diceva.

In corridoio incrociò una ragazza col braccio appeso al collo. Lei lo vide e gli sorrise. Gli pareva di averla già vista da qualche parte. La odiava: sapeva che appena non l'avesse potuta sentire avrebbe riso di lui.