2 wheeled heart

Author: Matteo Piovanelli / Etichette: ,

Lungo Hudson Street, col tramonto a sinistra e l'acido lattico che pompa nelle cosce. Il traffico della sera che strombazza e puzza tutto intorno (maledetti taxisti immigrati e le loro carrette a gasolio). Un calcio al paraurti di un qualche idiota che esce dalla tredicesima alla cieca, senza guardarlo in faccia. Il clacson già alle spalle all'incrocio con la quattordicesima, mentre si tuffa in mezzo ai pedoni, costringendoli a scansarsi di qua e di là.
È l'ultima consegna della giornata. Ancora tre chilometri dritto sulla nona, fino quasi all'incrocio con la cinquantaseiesima, ed anche per oggi avrà finito. Non è stata una giornata pesante: poche consegne, e tutte più o meno nella stessa zona. Questo vuole anche dire che la paga non sarà altissima, ma fa il pari con il fine settimana passato, in cui aveva stabilito il suo record di chilometri.
Trentaquattresima e quarantaduesima. Ancora un chilometro.
Shane non era il più veloce della compagnia di corrieri, né il più puntuale, ma forse era quello che traeva più soddisfazione dal suo lavoro. Correre con la bici in mezzo al traffico di una metropoli era il suo piccolo sogno da quando, ancora ragazzino, aveva letto Virtual Light. Per lui New York valeva San Francisco, fintanto che poteva pedalare.
Citofono o porta aperta? La seconda.
L'ingresso del palazzo puzzava di polvere e birra dimenticata in qualche angolo. La bici bagnava il pavimento con l'acqua delle pozzanghere putride lasciate dalla pioggia della mattina, ma Shane, dopo avere gettato uno sguardo intorno pensò che forse stava facendo un favore alla donna delle pulizie.
Il corriere mostrò la spalla col badge al portiere. “Consegna al B124.” L'altro appena annuì con gli occhi, ritornando a impolverarsi dietro al suo giornale. Davanti alle porte dall'aria decadente dell'ascensore: una cartina smunta del palazzo ed un cartello di fuori servizio.
“Merda.” La fatica sui pedali gli andava più che bene, ma i gradini gli rimanevano sempre sullo stomaco. Catena all'inizio del corrimano per assicurare la bici, e poi fino al secondo piano, scivolando un poco sul metallo che avrebbe dovuto fermare la plasticaccia anti-scivolo, o forse della moquette (quelle scale avevano un'aria da moquette, effettivamente). Poi a destra, contando i numeri sulle porte, tutti pari, crescenti a destra e decrescenti a sinistra. A metà corridoio ecco il 124.
Toc toc coi guanti, fatti di un tessuto il cui nome è protetto da copyright. Dei grugniti da un punto non precisato dietro al legno. Uomo, quarantina, barba mal fatta e vestiti sporchi; puzza di sudore e birra mischiati sulla maglietta; pantofole. Invece ad aprire la porta è uno che sembra appena uscito da un'importante università di economia, infilato in un abito che ha tutta l'aria di costare più che quell'appartamento squallido. L'unica pecca sono i capelli un po' stropicciati, e forse lo sguardo spento dove ci si aspetterebbe il sorriso di un vincente.
“Una consegna per Mr. K. Ross.” Un pacco della forma di un cartone da pizza, ma più piccolo. Una mini pizza, ma più pesante del dovuto, e senza i profumi e untumi d'ordinanza.
“Sarei io.”
“Dovrei vedere un documento, se non le dispiace.”
“Certo.” Ed eccolo! Mentre infilava la mano nella tasca posteriore dei pantaloni, dove un newyorkese non dovrebbe mai tenere il portafoglio, il sorriso da vincente del vero bugiardo. Il pezzo di plastica che presenta, comunque, convince il lettore di ID, per cui Shane può dirsi soddisfatto, salutare, e tornare dalla bici e sulla strada. Stavolta il portinaio polveroso non lo degna neppure di un battito di ciglia, per non disturbare lo sporco faticosamente accumulato stando immobile al suo posto.

Il cielo sporco della metropoli promette di pisciare sulle teste dei newyorkesi ancora un po' di smog, mentre Shane pedala verso il Bellevue, ciclista e non più corriere. La radio gracchia il suo nome. È Phil Thomas, il capo, che lo cerca.
“Dimmi capo.”
“Stacchi per oggi?”
“Sì. Te l'avevo detto che era il mio ultimo giro.”
“Merda. Ne ho una comoda comoda dalle tue parti.”
“Non c'è nessun altro?”
“Per dove sei, è davvero una cosuccia comoda comoda...”
“Mi spiace capo, ma sono sul serio di fretta, ora.”
“Fanculo, devi una birra a Carmen.”
Carmen, all'anagrafe William Carmelo, per chi ancora si cura di queste formalità. Un ispanico dell'agenzia nato nel Queens da una famiglia con sangue che arrivava da ogni continente. Aveva già quel soprannome quando Shane lo aveva conosciuto, e non aveva voluto raccontargli niente a riguardo. O era gay, o era un transessuale part-time, o c'era dietro una storia più complicata e divertente.
“Il bastardo è musulmano, quindi è come se gliel'avessi già pagata. Salutamelo e ringrazia.”
“Fottiti ragazzina. Buona serata. Spero che la tua donna almeno te lo succhi come si deve.”
“Sto andando da mia madre, capo.”
“E quindi?”
A questo punto Shane chiuse la linea: che altro poteva fare?

Il Bellevue era vicino, ormai. Tagliando nel centro ospedaliero dell'università, con la notte che svogliata incombeva, ecco che si avvicinava la griglia dove il corriere assicurava la bici. I lampioni si stavano svegliando dai loro sogni diurni, perché nessun uomo potesse conoscere il buio.
La porta automatica lo stava aspettando, e si spalancò lungo le sue rotaie mentre lui le andava incontro. L'infermiera della reception sembrava la copia femminile di quell'ultimo portiere: lo stesso sguardo vuoto, come un televisore fisso su un canale inesistente; la stessa polvere, come quella su di un soprammobile di cui ci sia dimenticata l'utilità; lo stesso contegno strafottente da nullità che vuole mostrarsi superiore.
L'ascensore lasciò tutta la giornata fuori. Chissà chi avrebbe incontrato oggi in camera di sua madre: la giovane ballerina innamorata, la donna malata e consapevole, una via di mezzo... Quell'immondizia che lei aveva in testa e che stava sostituendosi al suo cervello rivelava continue sorprese.
“Mamma...”
“Shane, bambino mio! Che bello vederti.”
I capelli sciolti le nascondevano il cuscino in un'inondazione di ricci. Dalle lenzuola azzurre spuntava il suo pigiama, dello stesso colore delle lentiggini che le avevano gettato in viso da piccola.
Ecco la solita domanda idiota. Zero originalità, tutta sincerità.
“Come stai mamma?”
“Oggi va molto bene. A cena c'era un buon purè, con un arrosto decente. Tu hai già mangiato?”
“No, mangio qualcosa più tardi quando torno a casa. Torno ora da lavoro.”
“Ancora in giro in bici a portare i pacchi a spasso a fare la pipì?”
“Sì mamma. Le lezioni riprendono tra più di un mese, quindi ho tempo di mettere da parte qualche cosa.”
“Ma non ti serve davvero, con lo stipendio di tuo padre e tutto il resto.”
Suo padre era stato un ricercatore per molte aziende tra Europa e Stati Uniti. Era morto da un anno dalle parti di Parigi, nell'incendio del laboratorio dove si trovava. Shane ancora non si capacitava dei fermimmagine presi dai filmati della sorveglianza: una palazzina di due piani, poi una palla di fuoco (sfocata dal rumore elettrostatico sulla telecamera), poi pozzanghere dove prima c'era l'edificio, e suo padre sparso in una o alcune di quelle, in qualche modo fuso con tutto il resto nell'incidente. L'assicurazione aveva pagato sontuosamente, e la pensione era copiosa, ma il grosso Shane lo teneva per le spese mediche della madre. Lui si accontentava di un mezzo cubicolo che nel complesso Hitachi chiamavano appartamento, e del necessario per vivere. Per coprire le necessità di svago usava la sua paga ed il suo tempo libero.
“Non posso mica starmene fermo a fare niente, no?”
“Come vuoi... Quand'è che sei venuto qui l'ultima volta? Era ieri o due giorni fa?” La memoria scarsa era stato uno dei primi sintomi, ed all'inizio ci scherzavano su tutti e tre.
“Ieri. Passo tutto le sere.”
“Giusto. Beh, dopo che te ne sei andato è passato tuo padre. Mi ha sorpresa perché pensavo fosse ancora in Europa. Ma mi ha voluto fare una sorpresa, perché non mi aveva detto niente che tornava.”
“Quel bastardo non mi ha detto nulla neppure a me!” Tenerle il gioco, non dirle niente: quante volte l'aveva fatto, negli ultimi tempi? Mentre lei inesorabile scalava la sua parete verso la fine, sempre più spesso si immaginava questi incontri con suo padre. Shane non soffriva la sua mancanza, ma sentiva di non essersi ancora separato da lui, come se non fosse convinto della sua morte: ogni volta che incombeva l'argomento, gli saliva un nodo di acido alla gola.
“Ah, non l'hai ancora visto? Deve avere avuto qualche impegno, e non avrà voluto disturbarti solo per dirti che era in giro, così non ti sei sentito obbligato a incontrarlo sputtanando i tuoi programmi.”
“Vabbè...”
“Comunque, cosa dicevo? Ecco, mi ha detto di dirti, poi quando ti vedevo, di spicciarti a trovarti una bella ragazza, possibilmente europea, perché ultimamente aveva voglia di nipoti.”
“Cosa?”
“Così mi ha detto. Ha detto che le europee come me sono meglio delle americane, perché camminano più vicine alle loro radici. Sai come parla sempre, no? Mezzo per enigmi...”
Per un po' andarono avanti a parlare, raccontandosi la vuotezza delle rispettive giornate, cercando di infarcire il tutto per renderlo più interessante. Dopo qualche minuto, cominciarono a finire ancora e ancora sulle stesse parole: Shane si tirò fuori dal circolo vizioso augurandole la buona notte. Prima che potesse chiudere la porta, lei si era assopita.

Né un cenno del capo né un gesto della mano smossero l'infermiera alla reception, fossilizzata nel suo costume di acari. Ecco la bici, ignara della sera che stava sorgendo dal fiume. Cuffie nelle orecchie: brani tristi, brani allegri, brani infantili, vecchi successi, nuove ed effimere hit.
Via dal fiume, sulla prima, e poi in Stuyvesant Square, ad ordinare del pollo con noodles nel minuscolo locale thai all'angolo. Tutti i posti liberi, il tizio dietro al bancone che gratta le pentole. Oltre a questo c'è solo il rumore di Shane che mangia, a tenere fuori il traffico, Shane che non vede l'ora di mettere le mani sui rubinetti della doccia, a casa, e poi immergersi sotto le lenzuola col portatile sulla pancia a vedere un film. Il locale aspetta senza fretta di tornare deserto, l'acciaio dell'arredamento freddo e artificiale tutto intorno a lui, pronto a vibrare delle sue note private non appena non ci sarà più nessuno ad ascoltarlo.
Di nuovo a pompare sui pedali, alla volta del Greenwich Village e dello stupro paesaggistico che aveva di fronte: il complesso abitativo Hitachi, un numero incalcolabile di cubi di cemento incassati uno tra gli altri, cubicoli che chiamavano case; una maxi-mensa, frequentata da chi non aveva tempo di procurarsi qualcosa di vero da mangiare; stanze comuni, in cui il piano originario prevedeva bar e parchetti sintetici, ma dove stalagmiti di urina incrostavano gli angoli. Casa, per Shane, che tutto sommato non viveva male nella sua scatola grigia, che più che altro rappresentava una doccia ed un letto facili ed un contenitore per le sue cose.
Il tastierone di combinazione e citofono all'ingresso lo rattristava un poco, col suo blu tecnologia tanto sporco e consumato da parere una sfumatura tra il grigio topo ed il grigio ciminiera, col fatto che tutta l'umanità in quel casermone veniva ridotta a combinazioni di dieci cifre, sia che volesse entrare sia che la si cercasse. Un omone nero nero, le cui spalle nella vita precedente erano state il bullbar di un tir, occupava la porta sussurrando nel microfono, troppo vicino, a parere di Shane, per farsi mettere a fuoco dalla telecamera. L'aveva già visto altre volte sotto casa sua, siccome una volta aveva una mezza storia con una che abitava lì nell'Hitachi. L'aveva anche visto in giro, bazzicare per posti dove tutti sapevano potere trovare di tutto.
Al ronzare dell'apriporta, l'omone sospinse dentro la sua massa; Shane gli schizzò dietro come un'ombra, trascinandosi assieme la bici. Scambiandosi mezzo sguardo imbarazzato, un quarto a testa, entrarono nell'ascensore. Per Shane solo sette piani, un breve corridoio, e poi la pace della sua tana. Stasera non voleva fare e sapere niente: niente feste, niente locali con gli amici. Se la sentiva che era una di quelle serate da stare tranquilli con sé stessi, andare a dormire presto, riposare.
Finalmente la doccia che si era promesso. Intanto la bici si concedeva già il meritato riposo bagnando le stuoie che le facevano da letto, mentre la luce della strada attraverso la finestra percolava lenta a rischiarare timidamente il monolocale spoglio. Poi, ecco il momento delle lenzuola, fresche e piacevoli sulle gambe stanche del corriere. Per un attimo l'idea di guardare un film parve anche sensata, ma affogò rapida nella nebbia dei sogni.



Shane era nel letto. Il materasso era più grande di come lo ricordasse, lungo e largo quanto la sua stanza. Tutto era immerso in un buio particolare, un po' blu, in cui si distinguevano chiaramente le forme. Nel corridoio, fuori dalla porta aperta del suo appartamento, correva una nebbia fluorescente. Lui faticava a tenere gli occhi aperti per il sonno, ma li spalancò quando sentì che il materasso si spostava in risposta ad un nuovo peso: una ragazza si muoveva gattoni, scostando le lenzuola, senza guardarlo. Capelli corti, probabilmente chiari. Non gli riusciva di scorgerne i lineamenti, ma dove era scoperta la pelle nuda era chiara come la luna.
Shane si mise a sedere, col lenzuolo che gli cadde di dosso sulle gambe, e si accorse che sul letto c'erano molte lenzuola, tutte misteriosamente appuntate a dovere. La ragazza si spostava dall'una all'altra, sempre gattoni, e lui non sapeva ancora distinguerne il volto. Sentendosi le labbra pesanti di sonno chiuse per un istante gli occhi, per riaprirli un tempo qualunque dopo, quando lei gli si sedette sulle cosce. Guardandole la linea della schiena nuda, seppe limpidamente che avrebbe dovuto iniziare a massaggiarle il collo. Lei lasciava che la testa le ciondolasse da una parte e dall'altra, mentre le mani di Shane scioglievano la giornata dal suo collo, dalle sue spalle. Prese a muovere il bacino avanti ed indietro, sempre seduta su di lui e dandogli le spalle.

Shane si svegliò triste e con un'erezione umida. Era ancora piena notte: sbuffando si girò sull'altro fianco e si riaddormentò.

Di nuovo la stanza e il materasso erano lì trasformati. La riconobbe dai capelli e dall'odore, ma ancora non riusciva ad afferrarne i lineamenti. Erano coricati, lei sopra di lui, lui dentro di lei, lei che si muoveva avanti e indietro e da una parte e dall'altra, come un serpente che strisci, ma senza spostarsi da dove era.

Ancora Shane si svegliò, con le stesse sensazioni di prima. Trovò la forza di raggiungere il frigo per bere un po' d'acqua, prima di immergersi finalmente in un sonno immemore.

Racconto di fate sul cemento (6)

Author: la zuppa / Etichette:

Era una mattinata di scuola. Una lezione di cinema su Robert Altman.
Il cielo era ossuto, fuori dalle finestre ovali antiproiettile. Marco stracciava una rivista di musica sotto il banco. In mille pezzi, quasi esatti. Andrea non riusciva a parlare con Marco, mentre con calma provava a girare una sigaretta di tabacco disgustoso. Marco aveva delle pesanti occhiaie che gli scavavano il viso. Sembrava Kinsky in Aguirre furore di dio. Picchiettava la punta del piede contro il piede del banco. Andrea notò che aveva iniziato a mangiarsi le unghie. Gli chiese cosa stava succedendo. Notò che si stava divorando il pollice.

-tu che dici dell’ultimo di Altman? Chiese Andrea a Marco, deglutendo.
Lui la guardò storto e aprì la bocca stracciata.
-che la troietta della Lohan ora non la ferma più nessuno-
-in che senso?-
Marco smise per un attimo di sbattere il piede. E per la prima volta guardò Andrea.
-nel senso che è una che fa la reginetta in tutti i film, in ogni film. Poi diventa un’attrice matura. un’intellettuale, c’è da scommetterci. E poi.
E poi la ficcherei in un costume da velociraptor per Jurassic Park 5-.

Marco distolse lo sguardo da Andrea. Tornò a succhiarsi il sangue dal pollice nascondendo un avambraccio sotto i brandelli di rivista.
-che esagerato, mica una deve essere etichettata una volta per sempre. E poi chissenefrega, ti ho chiesto del film, mica degli attori-.
-hai ragione-.

Andrea attraversò una corrente d’odio bollente.
-cos’ hai, Marco? Ti odio quando fai così-.

-ti devo parlare- si confidò Marco.
Andrea lo guardò preoccupata, nervosa.
Marco spazzò via i pezzetti di rivista e scoprì un corpicino inerme di donna, dalle dimensioni di un feto abortito al quarto mese. Andrea trattenne un urlo acidissimo e vomitò bile silenziosamente tra le gambe. Marco le accarezzò la schiena. Strappò un’ala dal corpo del cadavere della fata e la lasciò cadere a terra, leggera.
In quel momento il freddo dei colori dell’aula di cinema sembrava quasi accogliente.

-ieri qualcosa mi seguiva. Qualcosa come questa- indicò la fata con lo sguardo -le ho filmate, sono sicuro di averle filmate tutte, queste cose-.

Andrea guardava il professore fisso tra le rughe della fronte. Non parlava. Pensava che ci fosse scritto qualcosa, tra le rughe.
-Andrea-

In quel momento sentirono un colpo sordo provenire dalla finestra. Solo Marco e Andrea si voltarono. Quando videro una fata sanguinare sul vetro, Andrea strillò. Forte. Tutti si voltarono e non capirono. Andrea chiese scusa, poi chiese scusa ancora.
Marco notò una crepa nel vetro antiproiettile.

Fate sul cemento e trainspotting

Author: Matteo Piovanelli / Etichette:

Non so se qualcuno qui ha letto trainspotting. Io lo sto leggendo in questi giorni (in lingua originale è commuovente e illegibile, cazzo di scozzesi). Non è un romanzo, di fatto, qualunque cosa si possa dire a riguardo. Il libro è strutturato come una raccolta di racconti giustapposti uno dietro l'altro senza un vero ordine. Effettivamente non pare ci sia nemmeno un ordine cronologico, nè un racconto si presenta a continuarne un altro più o meno di quello prima o quello dopo.
Questo è più o meno quello che ho in mente con le fate sul cemento. Certo, i raconti fino a qui sono spesso in ordine cronologico, e quel che succede di uno si ripercuote sui successivi. Ma l'idea di fondo è che siano solo un insieme di racconti, accomunati dai luoghi e da alcuni dei personaggi, anche se i personaggi già introdotti possono anche solo apparire sullo sfondo a dare colore.

Detto questo, me ne vado in giro.

Restyling

Author: Jager_Master / Etichette:

Ciao ai pochi che leggeranno.
Suggerito da Alan e avvallato dal sottoscritto, il sito auspica un ridimensionamento.
Che dite se torniamo allo scopo originale del blog che è quello di SCRIVERE RACCONTI e non CHATTARE SULLA NONNA DI CHI SAPPIAMO?

Proporrei di togliere immagini sceme, chat, merda e quant'altro e rimetterci a sfornare racconti più o meno decenti.
Se poi nessuno vuol scrivere...amen. O lo chiudiamo o starà fermo per un pò. Ma vedo che bovaz ci sta mettendo impegno....direi di fare come lui.

Tutti d'accordo?

Racconto di fate sul cemento (5)

Author: Matteo Piovanelli / Etichette:

Gecko


Max. Max quella notte era andato a dormire con un'arrabbiatura col mondo da doposbronza, senza essersi neppure sbronzato propriamente. Poi, era tardi, ma un po' di luce superava incolume le vecchie veneziane scrostate della camera. La fatica che non aveva fatto ad addormentarsi, sentendosi ad un certo punto colpito come da un pugno allo stomaco, ma dall'interno, fatto d'aria ed un senso di colpa immotivato. Che cazzo.

Dopo troppo poco, il caldo. Estate di merda, che si fottesse con chi aveva deciso di accoppiarla con l'asfalto e l'umido. Via le lenzuola, scalciate in fondo al letto, ma ancora niente. Fu costretto ad aprire gli occhi. Gli spiragli che davano fuori gli dissero che non era più notte, ma neppure era giorno. Che odio quell'ora, quando tutto si sveglia e tu vorresti chiuderti profondo dentro la tua testa e gridare contro quell'emicrania che senti incombere, eh, Max?
E poi, ad un tratto, il freddo. Intenso, da far gelare il fiato. Eppure non tagliava come il vento invernale, da cui nessuna sciarpa era mai sufficiente a nasconderlo. Era solo. Quasi un rumore, o forse l'ombra di un movimento al limitare del campo visivo, attrasse il suo sguardo al soffitto. Lui era lì, e gli sorrideva velenoso con gli occhi malvagi.
“Ciao ragazzino.”
Questa volta un gecko. Non più il buon vecchio serpente, ormai tristemente familiare. Se ne stava lì piccino picciò appeso al soffitto, che sembrava l'avessero disegnato lì, non fosse che era davvero troppo realistico. Si riusciva a vedere il tipico viscidume del rettile.
“Ho una piccola curiosità per te: se potessi essere appeso per tutta la mia pelle, sarei lungo dieci metri.”
Il ragazzo di limitò a deglutire, come qualche anno prima, come qualche giorno prima. Era diverso, ma era indiscutibilmente lui.
“Ho anche una notizia: i debiti si pagano. E tu mi dovevi un pegno. Ma sono stato clemente, e non ti ho chiesto nulla. Hai fatto di testa tua, mi hai deluso. E avresti dovuto pagare. Ma sai che cosa abbiamo fatto?”
“Non lo so.”
“No, non lo sai mai, inutile moccioso. Abbiamo fatto pagare a chi di vita ne aveva più di te da perdere. Voglio solo che tu sappia chiaramente che è colpa tua, della tua pretesa che niente cambiasse. Adesso dormi verme.”

Il sole era alto dietro alle nuvole e allo smog colorato. Non l'aveva strappato ai suoi sogni neri. Era stato il clamore del traffico davanti alla facciata di casa sua. L'inutile clang clang degli ingranaggi della società che andavano al loro posto sempre uguali, sempre stupidi, senza capire, senza sapere niente della macchina che facevano trascinare stanca a mangiare sé stessa.
Erano sogni? Oppure no? Fissando il soffitto sapeva dove erano state incollate le zampe della bestia, ma voleva credere che fosse successo tutto nel mondo della sua testa, come aveva voluto crederlo le altre volte.
Si tirò seduto sul bordo del letto. Mentre lasciava che i suoi piedi cercassero le ciabatte, passò il tempo a grattarsi la pancia sudata, cercando di convincersi ad alzarsi del tutto. Passando davanti al bagno ebbe l'impulso di lavarsi i denti: non ne valeva la pena, decise. Scese per fare una tarda colazione, o pranzo, o merenda, o qualunque cosa comportasse riempirsi lo stomaco. Quel pugno interiore della sera era ancora al suo posto che batteva e batteva.
Sentì sua madre che piangeva in salotto: probabilmente la stupida era sul divano che guardava qualche soap opera idiota importata dal sudamerica. E invece:
“Max, Chad, tuo cugino, è all'ospedale. L'ha investito una macchina sta notte.”

Con quanta intensità si può arrivare a maledire sé stessi? Bestemmiando, i pezzi del puzzle cadevano al loro posto. Ogni pezzo che si incastrava, un taglio profondo per Max.
Il serpente.
Un taglio.
Marlene.
Un taglio.
Le fate.
Un taglio.
Chad.
Un taglio.
Il sogno.
Un taglio.
Sua madre.
Un taglio.

Mentre contava i pezzi della sua anima rimastigli fortuitamente tra le mani, ecco Max davanti al Jourdan, l'ospedale dove c'era il pronto intervento chirurgico. Quel pomeriggio non lo fecero entrare a vedere suo cugino, che era ancora in terapia intensiva dopo l'operazione d'emergenza della notte. Merda.

Riuscì solo due giorni dopo a raggiungere la sua camera. Non lo volevano fare entrare, bollandolo come un altro della processione di tifosi all'ospedale, ma aveva avuto rapporti professionali con alcuni degli infermieri, che lo riconobbero. Contando i minuti dal primo tentativo fino a quando arrivò alla porta della stanza, aveva immaginato ucronici passati alternativi in cui fosse riuscito a non fottere la sua vita, sbattendo ogni volta la faccia contro il muro rappresentato dal presente. Se si avesse avuto davanti, si sarebbe preso a sberle forte, fino a farsi bruciare le mani.
Chad, cazzo, sorrideva. Max era diviso tra gli impulsi di prenderlo a pugni, piangere, e buttarsi dalla finestra, così stava immobile a guardarlo dalla porta, con gli occhi puntati sulla maglietta che chiedeva a caratteri cubitali “Ask me about your mom.”
“Ciao cugino.”
“Cazzo è successo?”
“Eh, lei era così bella.”
“Che cazzo stai dicendo?”
“La ragazza. Mi han detto che si è lussata una spalla, poveretta.”
“Pezzo di deficiente, tu ti sei spezzato tutte e due le gambe e ti preoccupi della troia che ti ha investito?”
“No, non dico lei. Il tizio che guidava è morto quando sono arrivati i paramedici. Poveretto.”
“Meglio così. Se l'è meritato.”
“Non dire così. Nessuno merita una morte del genere.”
“Fanculo... Te piuttosto?”
“Sono innamorato.”
Max si limitò a fissarlo in silenzio. Cos'era quella rabbia che sentiva e non riusciva a deglutire? Era venuto a vedere come stava il cugino, soffocato dai sensi di colpa, ed ora se la pigliava con lui? Ma la sua calma non poteva non dargli al cazzo...
“Ora va meglio. Prima faceva un mal fottuto, ma poi un infermiere gentile mi ha drogato e ora non sento più niente. Spero non mi cominci a prudere il ginocchio, se no con ste ingessature divento scemo.”
“Idiota. È colpa mia.”
“Ecco mio cugino: pronto a dichiararsi responsabile di ogni male del mondo, dal buco dell'ozono alla televisione. Ti sei ripreso dall'altra sera? Eri piuttosto giù...”
“No, ascolta, devi ascoltarmi.”
Max si avvicinò in un solo passo al capezzale: non sopportava più il sorriso di Chad.
“Di qui non mi muovo, cugino.”
“Sono serio, guardami. Ti parlo seriamente, o sono completamente pazzo. Probabilmente è così. C'era il serpente, che mi ha chiesto di uccidere Marlene, e Joshua, e quelli. E io ho accettato, tipo. Ho preso la spada e l'armatura, e giovedì sera sono andato al parco. Ma non ce l'ho fatta. E c'erano le fate. È colpa loro. Sono loro che mi hanno fermato. Tutti i colori, non il nero. E ieri è tornato il serpente, solo che era un gecko, e mi ha detto che era deluso. E che dovevo pagare, ma avrebbe pagato chi aveva più da perdere, al mio posto. Capisci?”
Da qualche parte nel discorso erano scese delle lacrime, e ora il ragazzo si reggeva la faccia, cercando di ignorarle. Oltre il suo sguardo annebbiato vedeva Chad che non sorrideva più.
“Cugino, sono preoccupato per te. Seriamente. Che storia è questa? Che cazzo stai dicendo?”
“Ho ancora la spada sotto al letto. Non l'ho più toccata. Non mi sono neanche osato di guardarla.”
“Per favore, Max, vai via e cerca di tranquillizzarti un poco prima di tornare.”
E Chad era serio quando lo diceva.

In corridoio incrociò una ragazza col braccio appeso al collo. Lei lo vide e gli sorrise. Gli pareva di averla già vista da qualche parte. La odiava: sapeva che appena non l'avesse potuta sentire avrebbe riso di lui.