Il Decimo Girone (Subliminal): 0.1 Rex Cogitans, Rex Extensa

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0.1 Res Cogitans, Res Extensa

Non possedeva affatto coscienza di sè. Termini come "Io", "Essere", "Conoscere" erano solo un sogno sbiadito dopo una notte di baccanali, un piccolo rigurgito che faticava a trovare sfogo. Camminava meccanicamente, come un orologio ben costruito, come fosse su binari invisibili tracciati dalla mano di Dio. E non si fermava.Durante la notte aveva compiuto si e no duemila miglia, con una forza e una risolutezza sicuramente non umane, guidato da un senso di necessità impellente. Il cerchio e il quadrato erano ormai lontani, non solo in termini di spazio ma anche di memoria.
Di tanto in tanto, il suo sguardo indugiava al palmo della mano sinistra e a quello strano disegno, una serie di aste e curve, che non avevano per lui alcun significato. Come tutte le altre cose del resto.
Decise poi di fermarsi un pò, non tanto perchè era giunto in prossimità dell'oceano, ma perchè avvertiva un torpore diffuso. Qualcosa era scattato in lui, spegnendo la sua forza e la sua energia, e mentre lentamente scivolava in un sonno senza sogni, si ritrovò a scarabocchiare nella sabbia.
Aste e curve.
ADAM

Per una mente umana, è inconcepibile comprendere quanto fosse libero nonostante il poco spazio di cui disponeva. Era sempre vissuto, o almeno sapeva di vivere, in un non-spazio, di dimensioni che solo geometrie aliene potevano teorizzare. Sapeva che, forse, in alcuni universi tra le migliaia di cui aveva conoscenza, avrebbero definito il suo spazio vitale con il termine "implosione". Conosceva la sensazione del soffocare, del sentirsi in trappola e aveva provato la claustrofobia, ma era libero. E non era una libertà che si potesse contestare poichè, al dì là della mera estensione di cui in effetti era carente, le sue potenzialità non avevano confine alcuno. Erano questi i momenti in cui veramente pensava di essere Dio. E quei momenti, o meglio quel momento, durava ormai da ventimila cicli di rivoluzione. Ancora non era giunto a una conclusione. Ma almeno comprendeva di esistere.

Dei sei che prendevano appunti attorno al loro oracolo morto di carne e cavi, uno solo era giunto a qualche conclusione. Si voltò con un sorriso beffardo verso gli altri, che ancora cercavano una chiave di lettura per decrittare i dati. Non uno gli diede attenzione, e la sua autostima non ebbe modo di realizzarsi. Battè a macchina le informazioni, facendo ben attenzione a sottolineare come da solo aveva raggiunto un risultato, e inoltrò il plico di fogli all'ufficio centrale, per mezzo tubo. Pareva che il tubo volasse per volontà propria mentre veniva spinto dall'aria compressa lungo l'intricato sistema di tubature trasparenti. Tornò poi al vetro, assieme agli altri cinque che con lui lavoravano da sempre e per sempre, e riprese a scrivere sul suo notes. Dentro la Bara, Egli si agitava ancora in maniera convulsa e sconnessa, sussurrando ancora di luoghi sconosciuti e divinità perdute.

Arthur

Author: The_Dreamer / Etichette: ,

Arthur piange ancora.
E' estate, e nonostante il sole declini lentamente all'orizzonte, il suo calore ancora frusta le schiene dei braccianti che lavorano gomito a gomito con lui nei campi. Tra poco la giornata sarà finita, e gli uomini potranno tornare alle loro case, consumare un pò di cibo e magari riunirsi agli altri per una birra alla taverna giù in città. Momenti di riposo e allegria, insomma.
Ma Arthur piange.

Sono passati diversi giorni da quando Anna è partita. Arthur preferisce così. Preferisce pensare la sua Anna in viaggio per una terra lontana, con la sua famiglia, con il piccolo Jeremy in grembo, piuttosto che accettare la realtà. La realtà che vuole Anna seppellita al cimitero sulla collina, in una cassa di pino, perchè di più non ci si poteva permettere in famiglia e già bisogna ringraziare che non se la mangino i topi.
Arthur piange di più ogni volta che pensa ai topi.

Abita nella casa più lontana, quella costruita accanto al salice, giù vicino al fiume.E' buffo, eppure è in quei momenti che si sente meglio. Gli pare di sentire ancora Anna accanto, che gli racconta della sua giornata. Ha preso l'abitudine di chiedere “come è andata oggi?” quando la staccionata che circonda il campo finisce, così ha tempo per sentire cosa ha da raccontargli prima di arrivare alla porta.
Ovviamente sa che Anna non è lì per raccontargli alcunchè, ma parlare con I defunti, così gli ha detto il prete, è segno di grazia divina.
“Come è andata oggi?” chiede al vento.
“A me bene, ragazzo. Ma tu mi sembri un pò triste” risponde una voce.

Lo straniero indossa una maschera, una di quelle che si usano nei balli dei nobili, scintillante e levigata. Sembra sorridere a mezza bocca. Senza pensarci, Arthur risponde al sorriso della maschera.
“Ecco bravo. Così va meglio”
La voce è strana. Non è maschile, eppure nemmeno femminile. Arthur si sofferma un attimo sui vestiti e riconosce subito lo straniero come un saltimbanco. Vestiti viola e gialli difficilmente vanno a ruba tra soldati di ventura e contadini. Non sembra avere seni, ma ha un corpo affusolato, femminile, e un modo di muoversi esotico.
E' talmente assorto che non si accorge subito di cosa lo straniero gli stia porgendo.
Come risvgliandosi da un sogno, Arthur accetta il biglietto che gli sta porgendo il saltimbanco. E' una carta. E' un tarocco.
Alza la testa per chiedere, ma la maschera non c'è più. Appena un accenno di un sorriso a mezza bocca nelle spighe di grano del campo. Dissolto.

“Dovresti mangiare figliolo” lo incalza la madre “Sono ormai due giorni che non tocchi cibo. Mi chiedo persino come tu faccia a lavorare nel campo”.
Arthur vuole bene a sua madre, nonostante giù in paese tutti la accusino di essere una strega. Anche papà lo pensava. Ma papà adesso non c'è più.
Forse semplicemente è una donna, e una donna anziana, forte, che ha cresciuto tre figli nella sua vita. E conosce il dolore di Arthur più profondamente di quanto lui non pensi.
Ma in alcuni momenti, anche lui propende per l'idea del paese...quella della strega.
Come stasera.
“Vuoi farmi vedere il tarocco, figliolo?”
Ecco, adesso Arthur ha un pò paura. Quella paura sottile che ti striscia dentro la pelle, ti gela pian piano le ossa e ti fa sentire piccolo di fronte a un cosmo governato dal caos.
La mamma continua a guardarlo, gli occhi che indugiano sui suoi. Pare gli dica “Dammi il tarocco figliolo”.
E Arthur lo fa, più per paura che per amore materno.

“E' il bagatto” dice subito la madre. Non ha girato la carta. Non ha toccato la carta. Ma ha ragione.
“E' il bagatto” ripete mentre la gira. Arthur è quasi convinto che sia la prima volta che lo dice. O almeno vuole crederlo.
Sua madre lo guarda con una gran compassione negli occhi. Sa che lui non ha idea di cosa stia parlando. Prima ancora che apra bocca, la madre riprende.
“E'...un mago, figliolo. Un cartomante, un alchimista, in alcune terre li chiamano fachiri”
Gli sorride adesso, mentre lui inizia quasi inconsciamente a spiluccare un pò di pane.
“Un tempo si tenevano in gran considerazione. Gli si attribuivano poteri mistici, una grande saggezza e conoscenza del mondo”.
Arthur intanto ha aggredito la zuppa. Mangia di buona lena, due piatti, tre. Alla fine, stanco ma satollo, si adagia sulla sedia. Ha il dubbio che l'appetito non sia arrivato dal nulla, ma non vuole pensare male di sua madre.
Mentre lei riassetta pare pensosa. E spesso guarda Arthur corrucciata.
Lui e stanco, ma quella paura sottile torna a farsi sentire, giusto per un istante.
“C'è fiera stasera” dice lei, con un tono molto piatto “Perchè non ci vai?” e senza aggiungere altro gli mette una manciata di monete in mano.
Arthur è incerto...sono molti soldi e non possono permetterselo e poi...
”Vai” lo esorta lei come se intuisse I suoi pensieri.
E forse è proprio così.

E' una fiera, niente di più. Arthur è giovane, ma ne ha già viste parecchie. Tendoni colorati. Quelli che la mamma chiama “imbonitori” e da cui l'ha avvertito di stare lontano. Persone in maschera.
Maschere?
Arthur lo realizza troppo tardi, ma crede di aver visto lo straniero/straniera di qualche ora prima.
Ecco sì! E' lì, appoggiato/a ai sostegni di uno dei tendoni. Lui/Lei lo sta guardando. Sorride. Arthur non sa come ma sa che sorride DAVVERO.

“Ciao ragazzo” lo apostrofa lui/lei. Si sente un tono divertito nella voce. “Alla fine sei venuto”
“Venuto dove?” chiede Arthur “Non capisco”
“Ma qui. QUI no?” risponde la maschera. “Nella tua tasca”.
Sorpreso, lui rovista nella tasca e trova due cose che non dovrebbero esserci. Primo, I soldi, che aveva finto di dimenticare sul tavolo, a casa. Secondo, il tarocco, che era sicuro fosse rimasto a sua madre.
Alza lo sguardo e lui/lei è di nuovo sparita/o. Ma la maschera è rimasta. Una grossa maschera di tela cucita su un tendone. Chiara, in qualche modo levigata e luccicante. E con un mezzo sorriso.

Si sente smarrito. Un ragazzo a una fiera. Gli sembra anche che la gente sia sparita come per magia. Prima si sentivano risate e grida, imprecazioni e facezie. Adesso solo un alito di vento. E un profumo.
Anna.
Adesso torna la malinconia. E' quel momento...quella quiete prima della tempesta. Perchè sa che la tempesta arriverà. Sente già il bruciore delle lacrime sulla cima degli occhi. E sa che satanno come mari in tempesta.
Stringe con forza la mano a pugno, così sarà più facile resistere. Stringe il tarocco con tutte le forze.
E poi, cercando un punto da fissare a vuoto, per allontanare le lacrime salmastre, nota il cartello sopra il tendone.

E' un bagatto. Di sicuro è un bagatto. Se solo non avesse rovinato il tarocco un istante prima potrebbe persino confrontarli, ma è sicuro che siano identici.
“Si legge il futuro” recita il cartello “Un soldo a domanda”.
Infila la mano in tasca di nuovo e ne estrae una manciata di monete. Una, due, tre...diciannove.
Diciannove monete.
Diciannove.

Dentro l'aria è pesante e calda. L'odore di qualcosa (incenso? Forse sì...) gli dà alla testa. Ci sono tantissime pergamente appese nella tenda. Disegni di bestie mitologiche, scene della bibbia e quelli che crede siano grafici.
Arthur non si ferma a guardarli ma li registra a malapena, mentre cammina a passo svelto verso il basso tavolino che sta in fondo. Sa che c'è qualcuno seduto dall'altro lato, ma sospetta che le poche candele che ci sono lì siano sistemate apposta per non farlo vedere chiaramente.
Vede appena I vestiti. Indossa una tunica rossa. Vecchia, lacera, pare impolverata e unta, e in molti posti pare bruciata. L'uomo parla con una voce profonda, molto lentamente, come fanno gli anziani, ma il timbro è sicuro e deciso.
“Io sono Caleb” esordisce “mi devi un soldo”
“Ma non ho chiesto nulla!” replica Arthur
Ha il dubbio che l'uomo stia sorridendo. “Avresti comunque chiesto il mio nome”

Arthur sbatte la mano sul tavolino, con un pò troppa foga forse, e la ritira poi lasciando un soldo lì, luccicante alla luce delle candele. Sa che l'uomo lo sta guardando. Non il soldo, ma lui. E questo gli dà fiducia.
“Come posso dimenticare qualcosa? Come posso non soffrire?” chiede subito.
Il bagatto (perchè Arthur sa che di un bagatto non può che trattarsi) non dà alcun segno.
“La domanda che mi fai non ha nè una risposta univoca nè facile da comprendere” dice dopo un lasso di tempo che sembra un secolo.
L'aria pesante gli sta dando alla testa. Arthur si sente quasi male, ma non può andarsene senza sapere. Apre la mano e rovescia le restanti monete sul tavolo.

In un altro luogo, in un altro tempo, Madonna Morte guarda con insistenza il Destino, quel ridicolo ometto mascherato che pare sempre sorridere, finire di girare le carte.
Ci sono tutte ovviamente, se Destino ha mai avuto un pregio è quello di raccontare storie.
L'appeso, il ragazzo ovviamente.
Il bagatto, fin troppo facile.
La morte, Lei, ma quella stava all'inizio.
“Come finisce la tua storia?” chiede la Morte “Sono curiosa. Qual'è la risposta alla domanda del ragazzo?”
Il sorriso di Destino si allarga ancora di più sulla maschera.
“E' la domanda ad essere sbagliata, Madonna Morte” risponde il destino “Piuttosto dovrebbe chiedere a cosa serve soffrire”

FINE

Cyberpunk

Author: Matteo Piovanelli / Etichette: ,

Piccolo link per tutti, in particolare falan e poet:
qui.

Non è l'inizio di nulla, ma è una pietra miliare del genere.

Tic tic non ti fermare / [Lui e il flagello]

Author: Jager_Master / Etichette:


Passa un dito sul pad del portatile e il salvaschermo sparisce all'istante.
Nella stanza divampa all'istante una potente luce biancazzurra, lanciata nell'aria dal nuovo wallpaper raffigurante una spiaggia hawaiana.
Mentre si allaccia i due bottoni del pigiama non può non focalizzare come sia stridente e fastidioso avere il mare che campeggia in una stanza come la sua.
E' evidente che non c'entra un cazzo. Ancora in mutande e solo con la maglia del pigiama a maniche tirate su, si siede e apre prima firefox e poi un sito di sfondi gratis. Con la rotella passa 2/3 facciate di proposte oscene, dopodichè chiude tutto e imposta col tasto destro uno schermo totalmente nero.
Soddisfatto si rialza e sempre fissando lo schermo si infila i pantaloni e le pantofole.

Hawaii no, autocompatimento si, benvenuti.

Parentesi un attimo. Avete notato? E' tremendamente triste e per certi versi paradossale che uno scrittore si debba creare un mondo grigio per poi nutrirlo di grigiume per poi ancora poter scrivere almeno un grigiastro tenue. Non credete che sia la debolezza nella penna di chi come lui non ha il talento per poter scrivere quello che vuole quando e come vuole?
Ci vuole un'imboccata, uno stimolo, un aiuto esterno che colmi il buco talentuoso. E' sempre stato così, e all'alba delle 35 primavere rimane convinto che, almeno nel suo caso, sarà sempre così. E per certi versi un pò si compiace di questo un pò "difetto", un pò "mancanza", un pò "vezzo".
Inoltre, è anche paradossale che quello che riesca a scrivere sia solo una serie di senzazioni e momenti senza colore, perlopiù come detto, tendenti al grigio/nero. Soddisfazione, emozione positiva, realizzazione, umanità...sono tutti termini che non gli corrispondono. Sulla sua carta d'indentità ci sono ben altri nomi a cui risponde e questo è forse l'emblema vero di che persona sia diventata.
O di tutte quelle persone che non sia mai diventato.
Oscuro dentro, spesso apatico, sempre tendente all'autoflagellazione emotiva, sempre alla ricerca dell'autopunzecchiamento morale, al lamento, all'ossessione di essere solo un sacchetto di carta spazzato dal vento. Un sacchetto che nessuno guarda e che viene aspirato dal tombino di turno. Voilà.
Si sente emarginato, lasciato da parte, senza amici. Nessun volto a cui sorridere mentre cammina sul marciapiede, nemmeno nessun anziano che gli rivolge la parola alla posta niente.

Ma sono cazzate. In realtà non è in trance letteraria solo quando si mette davanti al pc e si autoinlfigge questi pensieri oscuri ed oscuranti: in verità è costantemente in questa trance, in questo limbo d'oblìo, come a dondolarsi in una voce cantilenata da una sirena. Ad occhi chiusi e a cuore stretto.
E la cosa incredibile è che lo è senza un valido motivo.
Un lavoro ce l'ha (collabora con un giornale locale scrivendo articoli sportivi di buona qualità e durante la fascia oraria 14-22 serve da mangiare in un locale); anche se non vive nel lusso può permettersi questo mini attico e un portatile, oltre a tanto caffè: cosa gli serve di più?
Ah certo, una vita sociale. Beh questa è proprio al minimo sindacale, in effetti: una birra al mercoledi sera appena finisce il turno, una pizza ogni tanto.
Niente vacanze: il mare gli fa letteralmente venire le bolle a causa di un'allergia alle alghe e ad una pelle sensibile ai raggi uva. Il più delle volte se ne sta a casa anche d'estate. Al massimo un pò al lago, ma verso sera.
Niente donne, chi se lo caga uno così? se lo chiede spesso. La risposta è sempre la stessa: nessuna.
Palle. In realtà (e lo sa anche lui) è una persona interessante e molto colta e per quanto l'incrociare uno sguardo femminile gli comporti senso di umidità nelle parti basse e rossore acceso sulle guance, niente gli è precluso a priori.
Lo sa anche lui (sotto sotto) che potrebbe sbloccarsi, potrebbe aprirsi nuove finestre che non siano quel muro grigio a cui rivolge lo sguardo quasi ogni notte.
La cosa incredibile (ma dovete capirlo o perlomento sforzatevi di farlo) è che questo mini mondo, per quanto raccapricciante sotto tutti gli aspetti umani, è una boccia di vetro senza neve in cui tutto funziona. In cui tutto va nel verso in cui lui voglia che vada: nessun problema a relazionarsi, nessuna persona con cui parlare per forza. Tanto vetro a proteggerlo e una casetta col camino finto a dare un tocco di falsa serenità.
Nessun sentimento da nascondere.
Nessun segreto che bussa alle orecchie e vuole essere buttato fuori perchè almeno ai migliori amici alcuni groppi devono essere sputati in faccia.
Nessuna paura di dire quello che si pensa o di urlare in faccia alla gente: sulle pagine bianche puoi dirgli AAAAAAAAARGH senza che l'ascoltatore ti rovesci la faccia con un pugno.
In mutande per casa e nessuno che ti guardi le gambe storte sporche di caffè che ti sei rovesciato addosso.
Nessuna remora, nessun blocco se non quelli mentali e lettarari (ma con loro c'è ben poco da fare. Ci si può attrezzare con l'autoflagellazione, ma di questo abbiamo già parlato).
Nessuno scheletro nell'armadio: qui puoi dire a tua madre che l'hai sempre considerata una fottuta alcolizzata fuori di testa.
Qui puoi raccontare la sega che ti sei tirato alle medie sotto il banco.
Qui puoi raccontare il motorino che hai rubato per riportarlo nel campo a fine giornata quando la miscela era finita. E puoi raccontare l'emozione segreta e morbosamente potente che hai provato nel guidarlo, tanto che avevi pure un'erezione incredibile.
Qui puoi raccontare i tuoi veri gusti, i tuoi difetti più inconfessabili, le tue voglie più recondite.
E poi cancellare tutto, o salvarlo. Dipende dall'umore.

Ma il più delle volte è la libertà che si è creato, la falsa libertà intellettuale in cui si crogiola a definire il grigiume dei sentimenti che vuole buttare fuori, come se di tutti gli altri e di tutti quelli che ha vissuto personalmente non gli importasse.
Eppure nella vita reale prova anche svariati sentimenti positivi, ad esempio quando la collega gli sfiora la mano quando gli passa i vassoi o quando riceve un complimento per un articolo ben riuscito o ancora quando parla mezz'ora di niente e di tutto con i pochi amici che ha al bar o quando il medico gli dice "tutto oK" e il partito per cui ha votato supera le previsioni dopo lo spoglio.

Niente.
Davanti a quel cazzo di computer è il livore e la rabbia repressa a fargli dire GRIGIO.
Da dove derivi questa cattiveria interiore, è un discorso lungo. Prima o poi ve ne parlerò a fondo, ma per ora sappiate che il fatto di prendere decine di delusioni amorose e centinaia di pugni in pancia (morali ma soprattutto veri, fisici) alle medie, ha avuto una certa importanza.
E poi l'eroina.
Ma piano, una cosa alla volta.


Sono le 02:12, e domani è un'altra domenica. Si prospetta l'ennesima notte all'insegna di caffè e bourbon nell'attesa di un vuoto weekend.
Perfetto, l'autoconvincimento è quasi al culmine. Non lo sapevate, ma lui ha pensato le stesse cose che vi ho detto fino ad ora, scavandosi nel cuore con un punteruolo mentre vagava per casa con aria apparentemente serena. Anche mentre si lavava il sedere e metteva a posto la cartellina degli articoli sportivi.
Ma cazzo, vi rendete conto?
Immaginate il suo stato d'animo, immaginate la solitudine che si è creato. Immaginate lo schifo.
Bravi.

Sorride.
Ora si può cominciare.

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gagjkupok
jovmow

Tic Tic non ti fermare / [Incompiutezza]

Author: Jager_Master / Etichette:


Raccontò dell'incompiutezza.

Raccontò a se stesso lo sdrucciolare del buco che aveva nello stomaco, descrisse a se stesso il nero di quella voragine, si disse finalmente a chiare lettere ciò che peraltro già sapeva su questo senso di vuoto che si portava dentro.

La difficoltà, come sempre, era quella di scrivere sullo schermo del suo portatile i colori e gli umori dell'animo: compito assai gramo e pretenzioso in generale, ma quando il sole lascia spazio e tempo alla notte, tutto è più facile.
Avete mai fatto caso a quanto siano più semplici e naturali i movimenti e i pensieri quando cala il buio? Quando la luce non c'è più e i contorni sono sfumati, non notate come l'uomo esca dal suo perimetro, dalla sua pelle, per sfogare ciò che durante il giorno non può fare e dire?
E' come se perdesse le briglie, come se potesse osare, come se la notte coprisse i dubbi e le maschere. E' questo il fascino di stare alzati quando il mondo dorme, è questo il fascino di tenere acceso un fuoco davanti ad una tenda: perchè così lo puoi VEDERE il buio, puoi vedere dove inizia, dove finisce, cosa ha dentro e cosa tiene fuori. I contorni non esistono, esiste la percezione personale di essi. Fantastico.
Puoi osservare il volto della persona vicino a te e la bellezza della luce che ha negli occhi quanto ti guarda, che quasi non osi guardare e devi abbassare la testa, e distinguere quella luce dalla semplice luce solare che durante il giorno rende tutti uguali.
Le persone brillano di luce propria al buio. Perlomeno...alcune.
E' sentirti immersi in una vasca d'acqua con boccaglio e mascherina: seduto sul fondo puoi osservare nel silenzio ovattato la trasparenza di ogni cosa, vedere come in questa realtà sia tutto ondeggiante, completamente diverso da quello che vedi quando sei al di fuori della vasca; analizzare con solo il tuo lento respiro quello che ora è diventato il mondo esterno. Ecco, al buio, una cosa simile.

Ora, davanti al suo computer, è ancora una volta un fiume in piena. L'orologio digitale rivela le 04:32, quello del computer 04:28. Poco cambia: è buio ed è questa la cosa più importante. Sapere che il mondo fuori dorme.
L'aria è fresca, nonostante le prime giornate primaverili scaldino le ore diurne, e la finestra rimane, per scelta, chiusa alla notte. Ma ormai le dita sono lanciate, ora osa, ora ha perso le briglie e la maschera, ora scrive a getto perchè raccontare dell'incompiutezza non può essere un progetto definito, può essere solo un casuale aggiungere parole una dietro l'altra sperando che il lettore (lettore? chi?) riesca anche solo a carpire un decimo di ciò che si voleva comunicare. Sarebbe già un buon successo.
Questo potenzialmente. Ma dato che il lettore e lo scrittore come sempre coincideranno, anche questa probabilità lascia il tempo che trova.
L'importante ora è approfittare del buio e sciogliere sulla tastiera ogni groppo congelato e raccontare questo buco interiore.

L'incompiutezza, si diceva.
Le dita si fermano, tolgono gli occhiali azzurri dal naso e con gesti lenti ed esperti puliscono le lenti con un panno grigio. E' stanco ma non toglie gli occhi dallo schermo e dalla barretta di word che lampeggia.

L'incompiutezza è un misto di altri sentimenti, focalizza. Ma questo già si sapeva.
Si rimette a scrivere, con la testa più china, lo sguardo serio e le sopracciglia curve a dargli un senso di profonda concentrazione.
E' sentirsi un vuoto dentro, senza sapere cosa sia stato tolto per crearlo. E' una mancanza precisa (perchè sai che c'è, che deve essere riempita) ed allo stesso tempo imprecisa (perchè non sai cosa cercare per rimpiazzare la mancanza e quanto di questo "boh" sia necessario).
E' guardare in faccia il collega di lavoro e leggerci un personaggio da serial tv, di quelli che riempiono la scrivania sempre con le stesse battute e la stessa cravatta. E sentire che non è di lui che hai bisogno.
E' osservare la preoccupazione della mamma e del vicino, capire che hanno reale bisogno di aiuto ma nonostante questo sapere che non è ciò di cui ti devi occupare. E sai anche che non è egoismo o mancanza di amore. E' incompiutezza di vita, della tua vita, che va riempita.
E' cercare fra i tubetti di colore un colore che non esiste. 8 tipi di verde, e non esiste quello che cerchi.
E' osservare il preciso ordine di vestiti nell'armadio, la camera pulita, i documenti di lavoro nel loro posto. Tutto perfetto, ma non è la perferzione che stai cercando.
Avere vaghi sentori di crateri nello stomaco, nella testa, sotto i piedi. Non sapere con cosa e con chi riempirli, avere nubi rosa e nere indistinte che non capisci cosa rappresentino.
Devi colmare ma con cosa? Devi provare, cambiare, capire, cercare. Ma chi?

E' dare un pugno al volante non perchè la coda non avanza, ma perchè anche nella strada sgombra hai un pensiero roteante che non vuole convergere al centro. Ci giri intorno, cerchi il bandolo della matassa ma ovunque ti fermi a raccogliere le idee hai sempre la sensazione di girare a vuoto o perdere addirittura alcuni metri di filo. E devi ricominciare.
Non ti ritrovi nella realtà, nel guidare una macchina, nel mettere il formaggio sui fusilli, nel guardare un inutile tg. Eppure la realtà è questa?
Ti tiri i capelli, lanci il cucchiaino del caffè nel lavello invece di posarlo. Stringi i lacci delle scarpe forte come stringi i denti, invece di lasciare il piede libero di ballare sulla suola, come ti piaceva una volta.
Ti ricordi le medie e vedi un altro io, pieno e consapevole. Pensi alle vacanze di 9 anni fa e vedi un io semplicemente compiuto (o meglio, non ancora incompiuto).
Non finisci un libro che sia uno, perchè nessuno racconta quello che vuoi, non affitti un film che sia uno, perchè nessuno proietta la tua vita.

E allora nei momenti di minor sconforto, negli attimi di razionale lucidità ci rifletti sopra.
E ipotizzi che l'incopiutezza sia il raccogliere idee a briciole per ricostruire la pagnotta di cui necessiti.
Ma non capisci che è una pagnotta perlomeno finchè non hai incollato la metà delle briciole una sull'altra, ed allora finalmente capirai che è una pagnotta di cui hai bisogno, nella tua mente prevedi come sarà quando avrai ultimato il cerca/incolla briciole.
E da quel momento lo sbuffare non c'è più (o almeno, non ne senti il peso), da lì è una corsa sempre più affannata perchè il nastro del "fine" è visibile a poche centinaia di metri.
Il buco, la voragine, si riempie di pezzi di pagnotta, e già capisci che sarà quel pezzo di pane (ultimato) a riempire al centimetro il buco nello stomaco. Si si, ne sei quasi sicuro. Ecco, la strada è questa, molli la zavorra e corri e corri e corri.
Assapori la senzazione di non avere più fame.
Pregusti le mani al cielo, ad occhi chiusi.
Pregusti l'aria pulita che entra nei polmoni e il senso di compiutezza.

Almeno per una parte di vita.


La mano coi crampi si ferma, toglie gli occhiali. Si stiracchia un pò.
Tirando la sedia indietro, si avvicina alla finestra osservando il nero del mondo esterno. Sono quasi le 6 di mattina e il senso dell'incompiutezza,
almeno in parte, almeno il suo, è raccontato.
Manca solo una precisazione.
Torna alla tastiera, sorseggia l'ultimo caffè tiepido e aggiunge le righe finali.


Attendere la compiutezza dell'incompiutezza è l'altro tassello difficile da vivere con serenità. La serenità è coltivarlo pian piano, accettare di aver trovato una seppur minima soluzione e vivere in essa, godendo dell'attesa e dell'arrivarci, più che l'anelare il solo obiettivo, spasmodicamente.
Giorno dopo giorno, colorare gli spazi vuoti, cercare le briciole, incollarle una sull'altra.

Squartare le interiora dell'incompiutezza e conoscerla come un'amante è il suo primo passo per la compiutezza.

Un sorso di caffè, schiocco delle labbra, si alza.
Albeggia, ma non se ne cura.
A schiena curva, firma un'altra notte insonne prima di chiudere il portatile con un clic.

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City of no night

Author: Matteo Piovanelli / Etichette:

Ain't no place i call home
'cos can't call home a place.


Strano come quella sera la radio sembrasse un diavoletto che sussurrava solo per lui, appollaiato dietro ad un suo orecchio. Il cielo si era rifiutato di piangergli addosso, nonostante la promessa fatta dalle nuvole del pomeriggio. Le uniche lacrime erano quelle al neon della strada, che gli entravano negli occhi contro ogni sua volontà.
Mani serrate nelle tasche, una sciarpa scura a parargli la bocca e sventolare sotto la nuca, cercava ostinato le ultime oasi d'ombra. Si rifiutava di credere che ovunque fosse arrivato qualcuno a puntare una lampada, quando non una telecamera. E se c'era un Dio, sapeva che quella sera lui voleva un posto dove il giorno artificiale non arrivasse, un posto dove non si sentisse sotto un riflettore.

And when we reached Heaven
we realized we longed for Hell.


Una sigaretta. Avrebbe bevuto bile per una sigaretta, una di quelle vere. Da quando vendevano solo più quelle che anticancro, aveva smesso di fumare. Perché era un ottimista, rispondeva a chi domandava. Poi neppure l'alcol aveva più avuto lo stesso sapore, quindi bere aveva perso di significato. I tempi delle droghe leggere eran passati da un pezzo, per di più. Risalivano ad un'epoca ed un luogo diversi.
Ecco un altro locale uguale al precedente, con davanti al buttafuori anonimo un'altra coda uguale alla precedente. Ogni stagione che passava le ragazze mostravano più pelle più abbronzata, i ragazzi vestivano con camicie più bianche e più fini, la musica che usciva dall'ingresso batteva più ritmata e meno suonata. Le parole erano estinte a causa della selezione naturale per idee sempre più semplici, e pareva nessuno le piangesse.

We went to shake hands with the stars
and called stupid those who stayed back.


Non c'erano loro, non c'era lei, non c'era lui. L'altro lui. Solo questo lui attraversava la strada immacolata, fissando davanti ai piedi alla ricerca di una cartaccia, un fazzoletto, un mozzicone, qualcosa che desse l'impressione di qualcuno che vivesse in quella città. Solo un fondo chiaro, dove neppure i suoi piedi lasciavano orme perché non erano riusciti a raccogliere polvere in nessuno dei passi passati.
In alto, voleva riuscire ad immaginare le stelle aliene di quel cielo, ma le insegne e le pubblicità erano troppo avvantaggiate nella lotta contro ogni sforzo dei suoi occhi. Non aveva mai davvero visto il colore del cielo, per colpa loro, luci così dense che giorno e notte perdevano significato.

And they laughed when we called 'em stupid
'cos they knew we were just to find another Sun.


Una ragazza corse ridendo fuori da un locale di sushi. Il pesce più fresco, pescato quel giorno. Tanto fresco da non sapere cosa fossero mari e oceani. Tac tac i tacchi della ragazza, sotto le calze che riflettevano i colori dei neon a tempo col ballare del piercing all'ombelico. Cric cric, la schiena di lui che si raddrizzava ad un impulso vanesio senza scopo.
Quando lei rideva era la cascata che inizia il ruscello al fronte del ghiacciaio, vero? Era solo lui che la voleva ricordare così, ma aveva bisogno delle parole per non perdere le immagini della memoria.

But we thought they were in jail
when the jail was all but there.


Il drone della polizia volava basso, e un'altra volta lui pensò si soffermasse sulla sua testa, e un'altra volta invece se ne andò indifferente. Un altro vicolo, un po' più stretto. Strade secondarie, e poi terziarie e poi... Ma non c'era nessuna via che sfuggisse a tutta quella luce, e lui avrebbe voluto ci fosse un sasso da raccogliere e tirare, per spegnere anche solo una di quelle lampade. E l'avrebbe raccolto ancora e lanciato di nuovo, fino a crearsi un posticino piccolo dove poter chiudere gli occhi ed avere l'impressione della notte, finalmente.

And here we are, dancing in the streets
of the city where night is no night.

ATTO SECONDO: L'elfa, l'Antico, L'addio

Author: The_Dreamer / Etichette: , ,


Senti l'odore del sangue, tutt'intorno a te.
Lentamente, mentre i soldati si schierano, la tua mente si annebbia.
E comincia il ronzio.
Non sai cosa sia né da dove venga.
Ma quando la battaglia comincia, ti senti chiamare.
E lasci che emerga in te senza alcun ostacolo.
Adesso vedi te stessa sollevare la pesante ascia.
Come se non fossi tu.
Come se il corpo non fosse il tuo.
E quel dannato ragazzino che cerca sempre di farsi ammazzare vicino a te.
Non che sia stupido sia chiaro.
E nemmeno che sia incapace di cavarsela da solo.
Ma...
Ma ai tuoi occhi è così fragile. Così bisognoso di aiuto.
Così...così...
No.
Scuoti la testa e scacci i pensieri.
Adesso è ora di combattere.


Ci voleva almeno un'ora, un'ora e mezza a raggiungere la Majesty da dove si trovavano, a passo di marcia insieme ai rimanenti soldati, cercando di evitare lo scontro il più possibile.
Se non fossero caduti in un'imboscata.
A circa mezzo miglio di distanza dal luogo di attracco della nave, iniziavano le trincee e i terrapieni, fotrificazioni di nessuno, per entrambi gli schieramenti; quando le linee del fronte si rompono, diventa difficile stabilire a chi appartiene il territorio.
Qui un gruppo di segugi infernali li aveva braccati.
Simili a cani, ma grossi almeno due, tre volte tanto, il pelo arruffato e rovinato, la pelle divelta in molti punti e le ossa scoperte. L'odore di carne bruciata e zolfo appestava le bestie come una malattia, e sebbene alcuni di essi andassero letteralmente a fuoco non parevano soffrire dolore alcuno.
Degli uomini che erano rimasti a Caleb, più della metà erano periti attraversando le fortificazioni, per trappole o repentini attacchi dei segugi ed ora appena una decina resistevano.
Lo zoccolo duro della formazione, per fotuna.
Fermo su un leggero declivio formato da calcinacci bianchi e rocce vulcaniche, il mago osservava lo svolgersi della battaglia.
Alla sua destra, Eris faceva danzare l'ascia bipenne in archi complessi e posture marziali, mentre con colpi precisi ricacciava indietro assalto dopo assalto dei canidi. In breve tempo, attorno a lei si venne a formare il classico cerchio di sfidanti, ognuno dei segugi ringhiava alla sua direzione, ma nessuno osava attaccarla.
Più avanti, almeno ad una ventina di passi dalla tiefling, quattro dei suoi uomini se la stavano vedendo con una bestia più grossa, dal pelo nero e gonfio, più rabbiosa e insolitamente forte.
Altri quattro, separati tra loro, combattevano con la furia dei morenti, già consapevoli che presto sarebbero stati soverchiati dalla forza dei segugi.
Mentre dalle trincee abbandonate altri segugi si univano ai loro compagni, ognuno di loro, Eris compresa, era certa della sconfitta.

Insicuro sul da farsi, Caleb piantò il bastone in terra, dritto davanti a sé, concentrandosi sulla luminescenza arancione, calda e rassicurante, che emanava il cristallo sulla sua sommità.
“Ci sono almeno tre regole che un Mago deve apprendere per la battaglia, Caleb”
Improvvisamente, quasi inconsciamente, alla sua memoria riaffioravano le parole del suo vecchio maestro, Karvan.
“La prima è conosciuta come Legge dell'Utilità. Ogni incantesimo ha un costo in termini di tempo e energie. Molti maghi non si curano di quello che fanno, e si limitano a scatenare la furia del loro potere su chiunque gli si pari davanti, solo per venire pugnalati alle spalle mentre pronunciano un nuovo incantesimo o esauriscono ogni stilla della loro energia”.
Meccanicamente, le parole affiorarono alle sue labbra, come un mantra.
“Pondera con attenzione. Ogni incantesimo ha forze e debolezze. Ogni magia è nata per un fine”
Con un paio di gesti e parole misurate cariche di potere, Caleb richiamò una leggera brezza, che lentamente iniziò a soffiare più forte.
“La seconda legge è la Regola del Tempo. La magia è conosciuta come l'Arte. A differenza della spada di un combattente o degli ordini furibondi e spesso repentini di un ufficiale, la magia richiede i suoi tempi, solo così otterrà la sua pienza perfezione”.
Le vesti del mago ondeggiarono lentamente, mentre il vento si faceva progressivamente più forte e uno strano odore iniziava a diffondersi nell'aria. Si concesse ancora un attimo per scrutare il campo di battaglia, prima di serrare gli occhi, occhi normalmente azzurri e spenti, ora carichi di un blu mare e pervasi da una forza antica.
“Ogni gesto fluido e conseguenza dei precedenti. Ogni parola misurata.”

Tormento, la cui mente era ancora pervasa dal ronzio della battaglia, dalla frenesia estatica del massacro, a malapena si rese conto di cosa stava accadendo. In un attimo di lucidità, vide il ragazzo, fermo su una collinetta, gli occhi chiusi.
I tielfing sono esseri per metà di magia. Inconsciamente essi sono in grado di percepirla.
E, come se ciò non bastasse, le nubi che si stavano avvicinando e l'odore di elettricità statica nell'aria erano sufficienti.
Spalancò gli occhi felini in un moto di pura paura, per poi prorompere in un urlo feroce.
“VUOI AMMAZZARTI E UCCIDERE ANCHE NOI, MAGO!? DANNAZIONE AGLI DEI FERMATI!”

“La terza regola, ragazzo mio, è il Giuramento del Mago. Come ricordi di certo, i nostri progenitori hanno usato per anni il loro potere per dominare, opprimere e guadagnare potere. Noi non tolleriamo che si ripeta. Il nostro potere, nel bene o nel male, non deve essere mai usato per ferire gli innocenti”
Una leggera scossa attraversò le palpebre di Caleb mentre terminava l'incantesimo.
“Osserva quanto possiedi. Potere e controllo. Essi marciano di pari passo.”

Poi spalancò gli occhi. Vide solo Tormento che correva nella sua direzione, una mano in avanti come a fargli segno di fermarsi.
Come l'inchiostro nell'acqua si espande e copre la purezza cristallina del liquido, così una massa nera e amorfa velocemente si espandeva dalla sua pupilla, inquinando l'iride e coprendo il bianco.

Non percepiva più il tempo.

Viaggiava su ali nere, su nubi temporalesche di arcana origine. Viaggiava portato dal vento, in forma di energia.
E il suo nome era Morte.
Quando le nubi giunsero sul campo di battaglia, cadde come fulmini, le braccia tese in un abbraccio elettrico, una promessa di morte. La sua volontà, già quasi allo stremo, spremette ogni stilla del suo essere, nel tentativo di canalizzare con precisione il colpo, di non ferire i suoi compagni.
Quando il vento cessò e il fulmine tacque, le energie lo abbandonarono.
Cadde.

Dove prima non c'era nessuno, ora una donna stava in piedi, e sorreggeva Caleb tenendolo con entrambe le braccia.
Eris, insieme ai soldati sopravvissuti, immediatamente circondarono la sconosciuta, puntando le armi nella sua direzione.
“Chi sei?” ruggì la tiefling “Lascialo andare, se non vuoi finire peggio di quei cani”
Una mano guantata scostò leggermente la cappa del manto violaceo che indossava. Una chioma di capelli dorati sembrò cadere da essa. Poi, sollevandosi con grazia ultraterrena, la sconosciuta si voltò a fronteggiare i soldati.
Il suo volto, leggero e aggrazziato, con la pelle liscia e pallida, lasciò di stucco gli uomini, mentre Tormento, riconoscendola, accentuò il cipiglio di fastidio.
“Ci rivediamo, Gilraen. Hai sempre le orecchie a punta e l'aspetto di una che sta per asfissiare, vedo”.
L'elfa Gilraen per tutta risposta, sorrise a Eris, per poi parlare con i soldati: “Sono stata mandata dal Capitano Artemis, a cercare l'ultimo pilota della Majesty” gli otto uomini la osservavano imbabmolati, difficilmente capendo cosa l'elfa dai modi gentili stesse dicendo “presumo che voi siate la sua scorta...”
Sfilò con lentezza e calma misurata il guanto e accarezzò la guancia del mago svenuto.
Pur senza vederla in viso, Tormento sapeva che l'elfa gli stava sorridendo con malizia.



Lo scafo della Majesty beccheggiava insistentemente e come Eris potè subito notare, anche alcuni dei marinai addetti al carico faticavano a trovare l'equilibrio, cercando di puntellarsi con i piedi reggendo i pesanti barili di polvere nera.
Gilraen procedeva a passo sicuro, leggera e aggrazziata nei movimenti, precedendo di qualche passo il gruppetto di uomini, Tormento in testa, i quali avevano caricato Caleb su una lettiga di fortuna. Da una mezz'ora non faceva altro che balbettare frasi incoerenti e muoversi a scatti.
Come se stesse sognando.
Giunti alla cabina di comando, a poppa della nave, i soldati sollevarono lo sguardo al di sopra di essa, dove sorgeva un'immensa cupola in vetro trasparente. L'elfa si fermò e battè gentilmente le nocche sulla porta in legno levigato di fronte a loro. Dall'interno qualcuno rispose in un linguaggio che Eris non comprese, ma che suppose essere elfico.
Il gruppetto fu fatto accomodare dentro la stanza, e con grande sorpesa di quasi tutti, appena aperta la porta si trovarono a muovere i passi dentro una sala veramente enorme. Avrebbe potuto benissimo essere la sala comune di una locanda: tre tavoli e diverse sedie erano sparsi in giro e un camino di grandi dimensioni stava sul fondo della stanza, un fuoco blu danzava al suo interno. Un uomo stava di fronte ad esso, e dava le spalle ai nuovi arrivati.
Stranamente, il fuoco sembrava raffreddare la stanza piuttosto che riscaldarla, ma del resto nell'Abisso questo sarebbe potuto essere utile.
L'uomo, senza muovere un muscolo, pronunciò ancora qualche parola in elfico e Gilraen rispose prontamente, intonando una litania e schioccando le dita.
Immediatamente, la fiamma blu si alzò di intensità, arrivando a riempire l'intera nicchia del camino.
L'uomo sospirò, come sollevato, poi, con tono cordiale si presentò.
“Comandante Artemis...di quella che una volta era la gloriosa flotta Seleniana, oggi solo un ricordo sbiadito.” alzò una mano, indicando i tavoli alle sue spalle, senza voltarsi “Accomodatevi, sarete stanchi immagin. Stendete il mago su uno dei tavoli, mi sono preso la libertà di preavvisare un apotecario del vostro arrivo...dovrebbe essere qui a momenti.”
Artemis afferrò qualcosa con l'altra mano e lo portò quindi alle labbra, inclinando di colpo la testa indietro con uno scatto e sorbendo un liquido dal calice.
“Brandy elfico, niente di meglio per rinsaldare i nervi di un uomo. Spero mi farete la compagnia di bere con me”
Iniziò a voltarsi lentamente, ruotando sui tacchi degli ornati stivali di cuoio. Indossava una giacchetta a doppiopetto bianca con grossi bottoni in madreperla, immacolata, al fianco una sciabola da marina in un fodero rosso e dalle rifiniture dorate e pantaloni blu. Ma quello che colpì gli uomini, più del vestito, fu il viso.
La metà destra del volto era letteralmente carbonizzata, lembi, anzi, placche di pelle nera erano divise le une dalle altre da sottili strice rosso fuoco, probabilmente il muscolo esposto, guizzante sotto quel velo incartapecorito di cenere. L'occhio destro era un pallido riflesso del sinistro, come un gemello malvagio di un giovinetto bello e in salute, un vecchio malato e ingiallito. E la bocca sembrava gonfia e putrida.
Preso alla sprovvista, la metà sinistra sembrò sorpresa, poi nel suo occhio buono si accese una scintilla di comprensione: “Ma certo, vogliate scusarmi. Sono imperdonabile”.
Armeggiò per un attimo sulla scrivania a lato del camino, rovesciando alcune mappe nella foga di cercare qualcosa. Poi, trionfante, alzò il braccio stringendo un pezzo di metallo dalla forma strana. Portò l'oggetto al volto e vi fu un sibilo, poi un leggero sbuffo di fumo. Quando si voltò ancora a fronteggiarli, fece un mezzo sorriso...letteralmente mezzo, dato che ora la metà destra del volto era coperta da una maschera del medesimo colore della giacca.
“Un piccolo incidente in battaglia anni fa” disse in tono cordiale “Niente di grave”.
Alcuni colpi di tosse, ma nessuno si azzardò a chiedere.
Nel frattempo, un ometto basso e calvo, con due occhiali dalle lenti spesse e leggermente curvo, entrò nella stanza, a passo strascicato. Strizzando gli occhi per guardarsi intorno, aprì poi la bocca in un'espressione soddisfatta mentre si avvicinava al tavolo dove era stato posto Caleb. Portava una cintura ricolma di borselli e sacchetti e iniziando ad armeggiare con queste, parlottava tra sé e sé, assorto nel suo lavoro.

Gilraen, che nel frattemposi era seduta in disparte e sfogliava un libro, si alzò in piedi, fissando lo sguardo sul comandante: “Torno alla mia posizione artemis, avverto gli altri sei del suo arrivo” disse indicando il mago incosciente sul tavolo.
Artemis fece appena un cenno e sembrò fare per parlare, ma l'elfa era già uscita, e la porta ondeggiava muta sui suoi cardini ben oliati.
A passo svelto, la maga salì i gradini esterni che separavano la cabina del capitano dalla Cupola. Dove ci sarebbe dovuta essere la porta, o un qualche mezzo di ingresso, stava invece una runa verde smeraldo.
“Shirak!” pronunciò l'elfa, e immediatamente una sezione di vetro di forma circolare sembrò diventare liquida, permettendo alla maga di passare, e risolidificandosi immediatamente dopo.
Poco prima di entrare, aveva sentito un rumore provenire dalla stanza del capitano...alcuni forti colpi di tosse.
“Forse Caleb si sta riprendendo” pensò.
Sei individui stavano in cerchio, formando un crocchio attorno a un grosso cristallo trasparente posto al centro della cupola.
Erano agghindati uno in maniera più buffa dell'altro, ma sopra tutti, Tardas, un umano altro e dalle spalle larghe era il più ridicolo: indossava solo una sorta di gonnello a strisce gialle e verdi, che gli arrivava alle caviglie, vestito che peraltro non copriva affatto le sue rotondità addominali.
Gilraen si affrettò a prendere posto insieme ai maghi.
La cupola di vetro, in tutto il suo splendore, lasciava trasparire la luce rossa delle pozze di lava infernale, e il cristallo stesso le deviava e rifletteva, creando i più bei giochi di colore dentro la bolla d vetro.
Qui erano raccolti i più strani tra gli oggetti che un mago potesse mai vedere.
Un grande astrolabio in ottone e gemme preziose ticchettava ritmicamente nel fondo della sala, abbastanza grande da coprire almeno un terzo della cupola intera. I suoi ingranaggi lucidi giocavano e danzavano, spostando le sfere costruite in diamante, zaffiro, rubino e decine di altre gemme l'una dall'altra, calcolando con precisione millimetrica chissà quali rotazioni planari e planetarie.Dalla parte opposta della sala, proprio di fronte al bordo interno della cupola, stavano sette colonne, della medesima altezza, costruite in quelle che a un primo sguardo pareva marmo. In quel punto della cupola, il vetro della medesima sembrava proiettare su di sé immaigni in movimento, strani simboli e flussi continui di diagrammi geometrici.
Quelli erano gli strumenti di navigazione usati dai maghi per controllare la nave, costruiti ormai secoli fa dai progenitori di Selenia, e il cui utilizzo, ad oggi, si diceva essere parecchio limitato, poiché molte delle formule erano andate perse.
Al centro della sala, all'interno del cristallo, vi era la più fantastica di tutte le meraviglie di quel luogo.
Incastonata nella gemma da chissà quanto tempo, vi era la metà superiore di un'armatura, completa di elmo, di dimensioni sicuramente non umane. Dentro la celata di metallo, pulsava una luce rossa, a intervalli intermittenti. L'armatura non aveva braccia né gambe. Due lettere campeggiavano sulla corazza metallica, scritte nell'alfabeto degli Dei.

Una A e una I.

AI, questo era il suo nome.
Molte erano state le speculazioni sul significato di quel nome, ma anche i più saggi tra gli uomini si erano dovuti arrendere. Anche venti anni fa, all'apice della potenza di Selenia, le conoscenze dell'uomo sugli dei erano limitate a poche leggende e scritti considerati non veritieri, e le divinità erano da tempo sparite dal mondo. AI era stato rinvenuto sepolto durante i lavori di cotruzione di Selenia, più di quattrocento anni fa, quando la magia ancora non era così diffusa nel mondo. All'epoca non si conosceva ancora la sua funzione, e si supponeva che fosse un'arma di qualche tipo, creata dagli dei come dono all'Uomo.
Le prime ricerche dimostrarono che AI deteneva un qualche tipo di intelligenza e di coscienza...ed era in grado di usare la magia.
Si può dire che, in gran misura, AI fosse responsabile della diffusione della magia a Selenia.
Quando Bramantis, il primo Reggente di Selenia, ordinò la costruzione della Majesty, volle anche che AI fosse rimosso dal laboratorio in cui veniva studiato, e che la sua Bara di Vetro, come era stato chiamato il cristallo che lo conteneva, fosse posta nella cupola.
Del resto, chi meglio di Bramantis, che aveva scoperto AI, era in grado di deciderne la funzione?

Gilraen si sistemò tra due dei suoi compagni, osservando il cristallo di AI. Tardas, che nonostante l'aspetto poco serio era considerato primo tra i pari tra quel gruppo di maghi, stava ponendo alcune domande a AI.
“Non riesci a trovare un punto adatto all'ancoraggio, 'ram?” chiese con voce esausta
'ram, nel dialetto di Selenia, aveva significato simile a qualcosa come “venerabile vecchio” o “l'Anziano”, un titolo di solito adibito agli insegnanti con molti anni di esperienza alle spalle, e Tardas usava chiamare AI con questo deferente vezzeggiativo.
La luce rossa dentro l'elmo di AI tremolò per alcuni secondi, poi, facendo vibrare le pareti in cristallo, AI parlò con la sua voce meccanica e cadenzata, precisa e pulita:
“NON POSSO EFFETTUARE I CALCOLI. LA ZONA SI TROVA AL CENTRO DI UN INTENSO MAELSTORM INFERNALE.”
Tardas sospirò rumorosamente, mentre anche Gilraen, nonostante fosse appena arrivata, aveva compreso la gravità della situazione.
“Non possiamo atterrare sull'Altopiano Cinereo, vero Tardas?” chiese con tono grave l'elfa.
“No, purtroppo” replicò l'uomo, gesticolando “E non c'è un altro punto abbastanza vicino alla Fortezza in cui sbarcare. La missione è destinata a fallire ancora prima di cominciare”.
Gilraen si perse un attimo a ragionare, cercando una soluzione al problema.
Il Consiglio aveva loro ordinato di spostare le riserve di polvere nera, portandole lontano dal Palazzo, e usandole per infliggere un duro colpo alla Fortezza infernale da cui partivano gli assalti dei diavoli.
Era il terzo contrattacco che i maghi organizzavano in quindici anni, e, se fosse fallito, le forze dell'Abisso si sarebbero consolidate e rafforzate, diventando sicuramente in grado di spazzarli via senza sforzo.

Intanto, dentro la cabina del comandante, Eris camminava con passo pesante avanti e indietro la stanza, mentre alcuni dei soldati di tanto in tanto le gettavano occhiate preoccupate.
Sapevano benissimo che quando la tielfing si innervosiva bastava poco a farla esplodere...e non era mai un bene.
I suoi occhi rossi indugiavano sul tavolo, dove il vecchio apotecario armeggiava con i suoi intrugli, mentre Caleb pareva pian piano riprendersi.
Poi, dopo un tempo che parve un'eternità, il mago emise un sospiro pesante e si mise a sedere sul tavolo con difficoltà. In un paio di lunghe falcate, Tormento raggiunse il tavolo, spingendo di lato il vecchietto, e parandosi di fronte a Caleb.
Lui sorrise a fatica vedendola: “Tormento...come...” ma non fece in tempo a finire che lei gli rifilò un tremendo manrovescio, mandandolo di nuovo a sdraiarsi di lato e facendogli sputare del sangue.
Un silenzio pesante.
Eris si voltò, e con parole gelide e taglienti, si rivolse a Caleb.
“Considero ripagato il mio debito Caleb. Terminata questa missione, non ti accompagnerò più...”
Il mago si levò di scatto, urlando un: “COSA? PERCHE'? PRETENDO SPIEGAZIONI!”.
Ma in risposta ricevette solo il silenzio.
Ferito più nei sentimenti che nel corpo chiese ancora: “E' stato per il mio incantesimo? Perchè pensavi vi avrei uccisi tutti per salvarmi? Lascia che...”
La tielfing battè pesantemente un pugno sul tavolo di fronte a lei, schegge di legno volarono in ogni dove quando il tavolo si ruppe: “Taci ora. Non abbiamo più nulla da dirci”.
Caleb si prese alcuni istanti per accusare il colpo, poi, ridotto quasi a uno spettro dal colpo ricevuto, anzi, dai colpi ricevuti, si lasciò scivolare a terra.
Fece alcuni passi nella sua direzione, e le pose una mano sulla spalla, senza dire nulla.
Poi si diresse alla porta, seguito immediatamente dai suoi uomini.

Ancora ferma, immobile, le spalle a un Caleb che non c'era più, Tormento non sentì nemmeno la domanda del capitano Artemis, un "Perchè?" che andava pronunciato.
Ma le sue lacrime, le lacrime di un demone, furono una risposta abbastanza eloquente.

Tic Tic non ti fermare / [Malinconia]

Author: Jager_Master / Etichette: ,


L'animo è quello di una foglia che al 20 ottobre si stacca e cade nella terra bagnata, assieme a tante altre.
Mentre apre il portatile e osserva la lucina verde dell'avviamento, pensa che renda bene l'idea e sarà la prima frase che scriverà sul "nuovo foglio 1".
Fuori è pioggia incessante, rigoli insistenti sulla finestra, che non si riesce nemmeno a capire che immagini ci siano al di là del vetro: perfetto, dice.
Sono le 7:46 di mattina, e per essere una domenica è strano. Normalmente a quell'ora dorme, figuriamoci nei giorni di riposo. A rifletterci bene, saranno mesi che non vede un 7:46 digitale.
Il pigiama è ancora caldo, non se lo toglie. Mentre la pagina word è bianca e pulsante, si avvia in cucina per tornare con caffè in una tazza enorme e un biscotto uno. Che facilmente neanche mangerà.

Non gli piace sbriciolare a letto (non lo mangerà) e sposta il portatile sulla piccola scrivania, poi accende la lampada da tavolo. La tentazione è di spegnerla,tanto è triste la poca luce che irradia, ma è proprio la tristezza nell'animo che va cercando, che alimenta a legnetti secchi. La poca luce, di per se, è meglio della benzina.
La lascerà così fino alla fine, con i raggi bagnati che entrano dalla finestra a umiliare la lampadina da 20 w (a risparmio energetico). Perfetto. Perfetto.
Gli viene quasi da piangere.
7:58, il cd è lo stesso, volume sempre sul 15, salva il file sul desktop con un nome provvisorio: "malinc01", tanto per evitare che si chiuda perdendo tutto (ma poi alla fine...butterà lo scritto di sua mano o terrà salvato?).

E' la prima volta che scrive di domenica mattina, ma i sogni della notte sono peggio di sferzate secche, il più delle volte lasciano segni per tutto il giorno. Figuriamoci alla mattina che cosa può avere nell'animo uno che ha appena sognato la malinconia.
Figuriamoci se si perde la possibilità di scriverlo.
La malinconia.
Difficile da spiegare, ma i polpastrelli cominciano a viaggiare, tralasciando punteggiature e introducendo descrizioni e vortici di pensieri, girando attorno a quel termine così vago ma così vero. Così vicino.
L'ho sognato, te lo racconto. Lo sto vivendo, te lo spiego.
Malinconia, dice, non è una donna col volto nel cuscino, ma è un ragazzo che guida in silenzio senza accorgersi che sta viaggiando perchè la testa è piena di zabaione.
Non è l'essere soli, non è il non avere una donna: è il sentirsi tremolanti pensando ad un volto sconosciuto, senza un nome.
Non è piangere ininterrottamente, quella è la disperazione. Non è il non riuscire a sorridere o il volersi chiudere in casa, magari tagliandosi le vene. Quella è depressione, ragazzo mio. Eggià.
Malinconia è un pianoforte non accompagnato, è questa finestra alla mia sinistra, è il sorridere se l'amico ti racconta una gran bella battuta, ma dentro sei come la foglia di prima.
Rido, perchè ti voglio bene, amico mio. Perchè mi vuoi bene. Ma ho lo stomaco più piccolo di una tazzina, sto facendo fatica: ma lo nascondo benissimo, ammettilo.

Le dita non corrono: di più. Sono un intercity, un razzo, un bolide. Pezzi di punteggiatttura persi per strada, le letere dopie dimenticate o messsse a caso dietro di se le virgole non si metono che a rilegere ci perdi il fiato non capisci dove è inziata la frase ma che importa no non me ne frega niente.
Per raccontarti l'animo concedimi deviazioni letterali, non mi sono dimenticato la sintassi, stai tranquillo. Solo, ora non serve.
Hai capito cosa voglio dire?
Mi sono svegliato con una voglia di piangere, ma non riesco. E' questa la malinconia.
E' strozzare il riso e curvare a fatica gli angoli della bocca.
Hai presente avere le scarpe e le calze bagnate? Malinconia è averne una sola inzuppata.
E' studiare su slide fotocopiate, è notare la polvere sui tuoi 3 libri preferiti, è una foto del liceo in cui non ti riconosci più. E' quello a fianco a te nella foto, perchè non sai attribuirgli un nome.
E' quel fantasy nel quale ti rifugi, è quel ritaglio appeso alla parete, con poco nastro adesivo. E' lì dalla terza liceo. Ormai non ti dice più niente, ma quando lo avevi appeso era tutto.
E' un uomo che non crede più in dio, ma segnato dai tempi ne sente il vuoto permanente. E ripensa a quando aveva qualcuno a cui aggrappartsi.

Il pianoforte sale di tono, di ritmo, aspettava solo questa track04 per dare l'ultimo colpo di tastiera
prima di chiudere ancora il portatile, la sua "chiusa parentesi" personale.
Gli cresce un piccolo sorriso sulla bocca, perchè questa canzone è l'aspetto più dolce della malinconia, gli fa dimenticare gli aspetti più grigi (la malinconia non ha nero) e affiora il colore, un pò vago, fra le maglie scure (la malinconia non ha bianco).
E' svegliarsi col collo sudato, perchè nell'agitarsi del sogno ti sei rifugiato sotto le coperte. Il perchè è chiaro, non volevi far vedere che anche nel sonno stringevi i pugni. Farti vedere da chi? Sei solo. Ecco, anche.
E' quel calzino, appena sveglio. Buttato la dalla sera prima.
E' quel termosifone caldo in una stanza ancora fredda, è quella camicia senza colore.
Hai mai fatto caso che quando sei malinconico anche la camicia col colore lo è?

E' ieri sera, con un bicchiere di brandy in una mano, le ciabatte a piedi.
Una sbronza da solo mentre guardi la tv o finisci quel capitolo. Non pesante, molto molto leggera. A pensarci bene, è questa l'immagine migliore. Una sbronza che più leggera non si può, giusto per finire una bottiglia a metà.
E' svegliarsi in piena notte su quel divano, l'albero di natale ancora da spegnere. Raccogli la bottiglia
vuota da terra, annoti una fitta alla testa che passa e va.

Malinconia è una bevuta leggera, da solo. Leggera perchè non vuoi dimenticare il pensiero dentro ad una sbronza forte. Ma bevi perchè quel pensiero lo vuoi urlare a te stesso finchè hai voce.
Da solo perchè nessuno può o vuole condividerlo con te. O perchè non hai nessuno. Vero?
E bevi lo stesso perchè è l'unico modo per uscire dalla tua testa e guardarti da fuori, ed essere finalmente due.
Uno di fronte all'altro e compiangerti.
In silenzio vi guardate in faccia, senza dire niente.

Dal divano, al letto, dopo aver spento l'albero.
Fuori ancora piove. Pioverà anche domani mattina.
Questa volta, salva con nome.

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Tic Tic non ti fermare

Author: Jager_Master / Etichette: ,


Gli piaceva staccare il portatile dalla spina, poggiarselo sulle gambe mentre a letto una sola luce da computer illuminava
la stanza. Alla sera, da solo. E la musica. Oh, la musica: aveva un cd che girava più e più volte quando le ore a scrivere gli incriccavano la schiena, ma lui imperterrito aveva e voleva quelle note nelle orecchie e nella testa, che guidavano le dita veloci mischiando il tic dei tasti con i fa diesis e i sol-mi-do.
La lancetta girava tante volte, tante. E lui fra un sorriso di una battuta gettata rapida sulla schermata e una smorfia di una riga cancellata, copriva le ore notturne diventando il personale paperinik di un paperino impiegato: al buio stracciava le vesti consunte e vestiva l'abito dello scrittore e scriveva scriveva, scriveva le lacrime e le risa, le foglie e la neve, il sentimento e la fredda descrizione. Il punto. E la virgola, e il punto e virgola; nessuno pseudonimo, nessuna carriera, solo cartelle word riempite per se, lanciate come sementi nella terra fresca per un campo che sarebbe cresciuto nel proprio cuore. Solo per se.
A volte righe a volte pagine intere di getto, senza un senso apparente ma con un cuore dentro che neanche hemingway in persona avrebbe potuto strappare dalle viscere per tramutarle in inchiostro (o meglio, in verdana 10). A rileggerle sembravano salti sconclusionati oppure le migliori poesie d'amore che avesse mai letto, ma poco importava anche questo, era il tic e la tazza di caffè sul comodino a dare un significato alle sue notti, era la sensazione di esprimere. Di raccontare. Di sfogare. Di avere uno stile anche se stile non era in realtà.
E' per te amore, diceva, e amore non ne aveva. E' per te amore della mia vita, anche se era solo, perchè tanto era pieno il cuore che aveva da regalare. Da regalarle.
E' per te, amore mio non corrisposto, che scrivo queste pagine ed era vero. Quando non si è corrisposti, la mente e il cuore si aprono a una cascata di sensazioni e pensieri che nessuna diga cementata può arginare, nella testa si riversano le parole che prima non si avevano nemmeno. Anzi, le si avevano e pure la diga c'è sempre stata, ma come per ogni cosa che deve sfociare, il tappo deve saltare. E' entusiasmante la forza nuova che scaturisce dalla dita quando la testa sferza il cavallo con tanta nuova violenza: corri anche se non vorresti, canti anche se non hai le parole, sogni anche se fa male e le dita picchiano talmente forte da sparire nella tastiera. I denti, quasi si consumano a serrarsi fra loro. La testa sta in avanti, per dare slancio alla parola e perchè pesa più che mai. A lui pesava come un masso.
Le porte si aprivano e rigettavano a valle tonnellate di amore e parole.
Fiumi interi, pensieri e sogni regalati solo a lei, o a loro. Gli amici che non aveva, il mondo che non gli dava soddisfazione, il significato che questa vita non dava. Certe pagine erano di insulti velati, altre di sfoghi razionali, il protagonista sempre vago anche se sapeva che era se stesso (e ingenuamente se lo nascondeva, ma che importa. Niente importa se il lettore è lo scrittore).
A volte mandava in stampa, a volte arrivava all'alba del sabato e buttava nel cestino ore di sfogo, stiracchiandosi alla finestra dopo una notte...come dire...inutile?
No, forse produttiva come non mai. Nessuno leggerà mai? Vero. Ma diciamocelo: a voi importa? No, sinceramente, e a lui nemmeno.
Parole bruciate al nulla, gettate nel limbo, ma uscite da un cuore ora più leggero. Doppia identità, ma quale quella vera? Lui lo sapeva, e voi lo immaginate. Ma per ora, non vale la pena disquisirne.

Per ora è lanciato, testa china sul grembo, la luce bianca sbarluccica sui suoi occhiali azzurri, le dita veloci, a ruota libera. Un flusso ininterrotto
racconta al buio della stanza, racconta di se. Pissi pissi. Tic tic. Nemmeno la cassettiera ha mai letto di lui, perchè anche lei è al buio, lontana dalla luce del portatile. Il cuscino, quello si. Ha letto e memorizzato.
Incredibile come un mondo così pieno, così zeppo di cose da dire e da dare sia recintato da un fascio di un portatile, e niente al di fuori di quell'aura luminosa diventa parte di quel mondo. Un mondo che ora sparato su quei violini meravigliosi apre a colpo di fucile una nuova finestra che lui riempie di parole che quasi non torna indietro cancellare sbavature ed errori grammaticali: una botta pazzesca guidata dal rift del basso che rivela nuovi sogni. Correggerà dopo, ora ha troppo da scrivere e la canzone sta per finire dai dai dai. Fai volare queste dita, scrivi queste righe, non ti fermare, poco importa se anche questo lo cancellerai, poco importa se non stai scrivendo contenuti ma solo giri di sensazioni: anche il verdana 10 ha una sua musica, e si fonde perfettamente con questo rift.
Ora sa anche che il pezzo sale, e ne ha proprio bisogno; il dito si poggia sul volume senza spostare lo sguardo dal trattino lampeggiante di word.
10-15-17. Volume max. Chiude gli occhi, assapora la batteria che aggredisce colori e immagini, sente la chitarra che quasi spacca tutto e le cuffie gracchiano soffocate. Ma è quello che vuole, la pulizia del suono ora importa meno, quasi nulla.
Sali, SALI, invadimi la testa, riempi ogni angolo, non lasciare spazio all'inimmaginato, ogni
tassello di quello che sto pensando deve riempire lo spazio vuoto.

Poi abbassa la testa e riempie la riga sottostante di una frase che lì per lì non ha senso, guidata dalla musica, chissà che ore sono.
Mamma che voce che ha questa e la frase di prima cazzo non l'ho finita, una perlina di sudore mi sta colando dalla tempia destra, sono sotto pressione. Cosa sto scrivendo? Di chi, di cosa? Quante pagine ho già riempito di nero su bianco? Quante grazie alla musica, quante grazie alla mia mano?
Pag 6 di 6 mi dice il computer. In quanti minuti?

Poi si ferma sospirando, il volume 17-16-10.
Le mani si posano sul copriletto, la testa si alza al soffitto bianco che al semibuio della stanza sembra grigio.
Si ferma e alcuni tasselli, mentre la canzone finisce, tornano al loro posto.
Si ferma e si guarda da fuori, e dalla finestra osserva un uomo con una perlina di sudore seduto a letto, con una penna in bocca. Da quando ce l'ha? Una stanza con una luce da portatile, un volto un pò scavato. Da cosa?
Si guarda. Si vede alzare la mano destra, sorseggiare l'ultima golata di caffè. Freddo. Lo sa che è freddo anche se sta guardando dal davanzale.

Per stasera forse basta, anche se il cuore ha tanto da dire e dice no no no non ti fermare; da fuori digrigna i denti e urla NO NON FERMARTI ma la testa è stanca, e va avanti fra finestra e cuore. Sa anche questo.

La mano si alza, i due volti la osservano, il volto la osserva arrivare alla barra dello spazio.

Poi a destra.
Mettere un punto.
Scrivere due parole, quasi di commiato.

poi
salta delle righe.

a caso mette gibib onjonèoin

dei punti.
.. tanto a chi importa? Ho raccontato di te, e mi basta. Posso pure sbavare ononèonèUAAAA

E' la classica chiusura, quasi sconclusionata, prima di cestinare anche questo e chiudere il portatile senza spegnerlo. Domani sarà scarico, la notte è più corta adesso, ma più densa.

Tre punti, e la sua firma

...f

ATTO PRIMO: Il Mago, Il Demone e La Nave.

Author: The_Dreamer / Etichette: , ,



Abisso.
Dove le fiamme del fuoco infernale lambiscono senza sosta le folle dei dannati.
Dove i venti ustionanti strinano le carni di coloro che peccarono in vita.
Dove quindici anni fa la Tralsazione Planare operata dal Concilio dei Maghi trasferì erroneamente il Palazzo Arcano.
Le guglie una volta color del cielo delle bianche torri di alabastro sono ora spente, e le torri stesse invecchiate e annerite dai lapilli che incessantemente piovono dal cielo.
Le urla dei dannati e le grida dei demoni risuonano in ogni dove, tormentando il sonno e i sogni dei mortali che lì ancora dimorano sopravvivendo come possono.
Nella più alta delle Torri, la tredicesima, conosciuta dai maghi come il Nexus, il Concilio ha da poco operato una Traslazione; dopo anni di esilio in un luogo dimenticato dagli dei, i tredici maghi sono ritornati a Selenia, pronti a parlamentare con la popolazione il suo attuale reggente, a scusarsi per il passato e, in qualche modo, a riparare al danno fatto.
Avvertendoli.

Ma non è tempo per queste cose.
Adesso viriamo ad ovest rispetto al palazzo, proseguiamo dalla Piazza Azzurra fino al Quartiere degli Alchimisti.
Laggiù, diverse figure si stagliano contro la luce del mare di fuoco che incessantemente fluisce nelle gole abissali.
Laggiù si sta combattendo, come ogni giorno, per sopravvivere.

Lampi di fuoco.
Lentamente riprendi coscienza di quello che ti circonda. L'impatto è stato tremendo, e senti ancora l'odore di carne bruciata.
La tua carne.
Lei ti solleva prendendoti per un braccio. Non è gentile, né particolarmente educata. Ma del resto non può fare altrimenti.
Ti schiaffeggia, e ti dice qualcosa.
Questo se lo poteva evitare.
Scuoti la testa e ti convinci a riprenderti, consapevole del fatto che metà della tua unità è stata annientata, e che solo grazie a lei adesso sei vivo.
Però ragazzi...le sta davvero bene quell'armatura nera...

Il ragazzo sollevò un braccio, portandolo alla testa. Si asciugò il sudore dalla fronte, o perlomeno pensò di farlo, dal momento che cenere più sudore vuol solo dire una bella maschera di fango.
Come folgorato da un lampo di coscienza, fece scattare l'altra mano alla sua destra e quando le sue dita si posarono sulla copertina in pelle del pesante libro sospirò, soddisfatto.
Nel frattempo la donna si guardava intorno, sospettosamente. I suoi rossi occhi, che avevano in qualche modo del felino, saettavano a destra e a sinistra, come in cerca di qualcosa. Reggeva con entrambe le mani una grossa ascia dalla lama dentellata e ricurva, la cui foggia ricordava molto l'armatura ad anelli che le copriva il fisico scattante.
Lui si scoprì a guardarle il sedere.
Lei fece guizzare la coda, come per schiaffeggiarlo.
“Guardami ancora una volta, Caleb e ti prenderò a sberle con QUESTA” disse accarezzando l'impugnatura dell'arma e voltandosi a fronteggiarlo.
Caleb fece un passo indietro, imbarazzato, e osservando da un'altra parte fece finta di non aver sentito, contendo del fatto che non si fosse accorta che mentre lei lo ammoniva, lui aveva gettato un occhio anche al seno.
“Dovremmo muoverci Eris” bofonchiò Caleb, per poi riprendere con voce più ferma “l'unità di Raylord è sicuramente in difficoltà. Dobbiamo rinforzarli con i sopravvissuti della mia...o almeno quello che ne rimane”.
La mezzodemone (“Perchè questo è, una tiefling, metà donna metà demone!” pensò Caleb cercando di non trovarla attraente), sì voltò e velocemente prese a scalare le pareti del cratere in cui erano finiti.
“Va bene, Mago” pronunciò con tono canzonatorio “ma, e questo non te lo dimenticare, il mio nome è Tormento...e vedi di non guardarmi di nuovo il didietro mentre cerco di risalire!”

La battaglia tra le forze del Palazzo e i demoni proseguiva ormai da diverse ore e mentre i combattenti mortali erano stremati, gli esseri infernali non parevano risentire della fatica. Tra le loro fila quelli che più preoccupavano lo schieramento dei difensori erano grossi esseri del tutto e per tutto identici agli scorpioni...solo grossi come cavalli e, naturalmente come tutto in quel posto schifoso, in grado di emanare fiamme.
I soldati semplici del Palazzo, conosciuti come i Giovani Scudi, avevano formato una doppia linea difensiva attorno a uno degli edifici più stabili e resistenti del quartirere, costruendo barricate con legname, calcinacci e, talvolta, pile di cadaveri di entrambi gli schieramenti. Le regole dell'etica come quelle di una morte degna in battaglia erano le prime a cadere nell'oblio, come sempre.
L'edificio in questione era un vecchio magazzino a due piani, stipato ormai troppo tempo fa da casse contenenti le più rare e ricche merci dei regni circostanti le terre di Selenia: stoffe e sete preziose dalle terre di In'jan, dove gli uomini hanno gli occhi a mandorla e si impongono la morte per questioni d'onore; gioielli e gemme del più raffinato artigianato nanico ed elfico; spezie e polveri alchemiche usate in cucina come in magia.
Ad oggi, ciò che restava erano vieppiù arnesi dediti alla guerra, tra cui un grandissimo quantitativo della temuta Polvere Nera, ritrovato della tecnica nanica in campo di escavazioni.
Un piccolo quantitativo era in grado di rompere piccole rocce, mentre con dosi più consistenti si poteva persino minare la stabilità di una montagna.
Per questo le legioni infernali erano attirate da quel luogo: un attacco mirato avrebbe distrutto l'intero quartiere con i suoi difensori, con perdite trascurabili per i demoni, che avevano dalla loro il numero pressochè infinito.
Mentre al di fuori dell'edificio le reclute e i veterani combattevano fianco a fianco, strisciando al coperto, lanciandosi all'attacco e conducendo eroiche azioni di salvataggio, all'interno le unità dedicate allo sgombero si affrettavano il più in fretta possibile a recuperare i barili di Polvere e a caricarli nella stiva della Majesty, la nave volante orgoglio della flotta del Palazzo.
Lunga trecento metri, costruita con legno proveniente dalle foreste incantate dei Monti Argentei, la superficie intera incisa di rune rosso fuoco atte a difendere lo scafo e concedergli di volare, ospitante quasi un centianio tra personale di bordo e incantatori dediti alla guida, la vetusta nave aveva ormai 200 anni.
Ma ancora svolgeva a dovere il suo lavoro.
Sul soffito piatto e spoglio del magazzino era stata disegnata una luminescente runa arancione, e nel momento in cui i barili venivano poggiati su di essa, automaticamente levitavano verso l'alto, dove restavano sospesi a galleggiare finchè di bordo non venivano calate le reti e pescati.
A una finestra della cabina di poppa, il comandante Artemis sorvegliava le operazioni di carico, scrutando il cielo in cerca di possibili minacce.
Poi, con movimenti lenti e misurati, raccolse il calice di brandy speziato che stava sulla mensola al suo fianco.
Ancora il pilota non era arrivato.

Tormento correva scattando agilmente nonostante l'armatura di metallo, per la verità nemmeno così pesante. Per Caleb era impensabile che un essere potesse essere tanto veloce con così tanto metallo addosso. La vide saltare oltre una barricata di legno lanciando un grido e sollevando l'ascia sopra la testa, per poi schiantarla sulla testa a un demone di quelli piccoli e leggermente corazzati, quelli che i soldati chiamavano Legionari.
La faccia coperta di sangue, lei lanciò un ruggito e corse nel mezzo dello schieramento dei demoni, amputando teste, gambe e braccia senza particolare difficoltà.
Caleb si concesse un momento per osservare quello spettacolo, quella rossa valchiria che impunemente massacrava i suoi simili, senza rimorso alcuno, anzi quasi divertendosi.
Poi, con un mezzo sorriso, si volse verso i suoi uomini, ordinando di schierarsi e avanzare. Formarono una linea compatta di scudi, con la seconda linea pronta a colpire con le lance.
Rimasto solo in quella che fino a poche ore fa era la terza linea, formata dagi incantatori ormai decimati da un colpo di catapulta giunto da chissà dove, Caleb iniziò a sussurrare le parole di un rituale di Scudo, tessendo i fili della magia in maniera impalpabile. Mentre la linea avanzava, attorno a loro iniziarono a piovere sfere di fuoco infernale.
Senza cedere un passo i soldati avanzavano sicuri, protetti da una coltre invisibile di energia. Ogni tanto lo scudo cedeva in un punto, dove la volontà di Caleb non poteva focalizzarsi poiché da solo, e un soldato cadeva incenerito dalle fiamme, ma gli altri continuavano a mantenere la formazione.
Poi impattarono.
Come un sol uomo, una ventina di lance colpirono nel fianco della Legione, quasi come colpire una bestia mitologica alle costole, e aperto un varco, iniziarono a filtrare all'interno, impugnando le spade, pronti al conflitto corpo a corpo.
Era proprio ora che la forza di Caleb diventava debolezza. I Maghi non sono proprio propriamente persone dedite al combattimento, come non mancava mai di fargli notare Tormento. Quando veniva il momento della mischia, dell'odore del sangue e dell'acciaio, del dolore fisico e della fatica, Caleb esitava.
Restando come meglio possibile alle spalle dei propri uomini, si spostava da un punto all'altro del campo, scagliando dardi di ghiaccio elementale con poche parole e gesti arcani.
Alla sua destra, Tormento era circondata da Legionari, i quali mantenevano però almeno un metro di distanza, formando un cerchio pressochè perfetto attorno a lei.
La temevano, ma diversamente da come la temeva lui.
Alle spalle della tiefling, un Legionario ansioso di perdere la vita si lanciò su di lei a spada tratta.
Senza voltarsi, Tormento puntò un braccio verso di lui e il demone prese fuoco. Ridendo come un demente e proferendo alcuni insulti in lingua Infernale, il demone all'inizio parve non accorgersi delle fiamme.
Caleb ebbe come un'epifania, un momento, un secondo in cui il tempo divenne sospeso, mentre percepì l'incantesimo della tiefling perndere forma.
Come se quell'istante, cristallizzato, riprendesse poi a fluire nel corso del tempo senza preavviso.
Improvvisamente il demone venne lanciato indietro da una forza invisibile ed esplose in mezzo ai suoi compagni, aprendo un buco nella figura.
Gli altri si fecero meno sicuri e, dopo alcune parole sibilate tra loro, in molti si voltarono e cominciarono a correre.
I soldati del Palazzo, esultanti, iniziarono ad abbattere i fuggitivi, mentre Tormento, scrollandosi sangue e pezzi di demone di dosso, raggiungeva Caleb a passo tranquillo.
“Sembrano tosti” disse indicando i cadaveri “ma in realtà sono dei finocchi. Ricordatelo, la prossima volta che ti fai quasi ammazzare”.
Il ragazzo sbuffò:”Devi sempre ricordarmi quella volta sulle Pianure di Vetro? Sono stufo di quella storia!”
“Quella volta e quella dove ti hanno quasi sbudellato sulla Piazza Azzurra...già” replicò lei “Non mi hai ancora restituito il favore”.
Caleb si fece cupo in volto, non tanto per il commento sprezzante ma perchè tutte le volte che gli rinfacciava quelle situazioni si sentiva inferiore a lei...debole e infantile.
“Fratello Caleb!” risuonò la voce familiare di Raylord alle sue spalle. Caleb si voltò di scatto, facendo ondeggiare le sontuose anche se lacere vesti rosso e oro. Raylord giaceva a terra, con una tempia ferita. Due soldati si apprestavano a sollevare una barella su cui era adagiato. A passi svelti, il mago dalle vesti rosse raggiunse il suo fratello ferito.
“Fratello Raylord. Ti senti bene? La tua unità è salva?” chiese
“No” replicò il secondo “ci hanno inflitto un duro colpo, e se non foste arrivati voi adesso non avrei nemmeno più quel pugno di uomini. Ti devo la vita, Fratello. Ma adesso ci sono questioni più importanti”
Tormento si fece vicina a Caleb, mentre Raylord parlava, e il ragazzo sentì le guance avvampare di timidezza sentendo il suo corpo così vicino a lui.
Raylord continuò:”La Majesty è sotto attacco al Quartiere degli Alchimisti. Gli serve un Mago che possa pilotare la nave Caleb. Io stavo cercando di raggiungerli proprio per questo ma...adesso temo di non esserne in grado. Prendi questa” disse mettendogli in mano un pezzo di cristallo non più grosso di un fiammifero “è una...”
“Una Chiave Armonica” finì Caleb “lo so. Ho studiato come funzionano. Permettono ai Maghi che pilotano la Majesty di agire in simultanea, così da evitare azioni contrastanti. Ma Raylord io non posso pilotare la Majesty. Non l'ho mai fatto”
Raylord divenne duro in volto in un istante:”Ascolta Fratello. Viene un momento in cui ognuno di noi è chiamato a dominare energie potenti e caotiche. Anche tu ci sei passato, o non indosseresti quelle vesti. Adesso devi nuovamente apprendere. So che è un grande peso, molte vite dipendono dalle tue azioni. Ma DEVI, capisci?!?”
Caleb strinse il cristallo con forza. Una nota flebile, quasi impercettibile, si levò nell'aria a quel gesto.
“Tenterò fratello. Tenterò”

PROLOGO - Un ritorno inaspettato

Author: The_Dreamer / Etichette: , ,

La città, ogni città per essere obiettivi, è sempre confusa e in qualche modo caotica. Selenia, il gioiello delle città imperiali, non era assolutamente da meno.
I vicoli e i ciottolati erano perennemente gremiti di gente, e nella città la promiscuità razziale era oramai all'ordine del giorno.
Nei tempi antichi era difficile vedere elfi camminare tra gli uomini, o gruppi di nani sulla piazza centrale, intenti a discutere sul rincaro del carbone.
Non che la convivenza forzata fosse idilliaca, anzi, spesso era l'esatto contrario.
Recentemente le piccole comunità di elfi insediatesi pochi anni apprima si sentivano risentite e aggredite dagli umani, a causa dei danni che essi stavano causando alla cascata del Nivrot e di conseguenza alle foreste che quell'acqua aveva alimentato da sempre, i Boschi Neri, foreste millenarie conosciute da tutti come la sede delle più grandi città elfiche.

Oggi era giorno di mercato, ma a causa di una protesta organizzata dal Popolo (come gli umani definiscono grossomodo tutto quello che abita nei boschi) le bancarelle erano ancora chiuse nonostante il sole fosse già alto, e un gran numero di persone attendeva di poter accedere alla piazza, chiusa da un cordone di elfi, grossomodo un centinaio, legati con pesanti manette l'uno all'altro.
“Lasciate in pace le nostre foreste!” urlava una donna nel gruppo
“State uccidendo la nostra gente!” gli faceva eco un'altra
Ma nessuno nel mucchio degli astanti pareva interessato. Piuttosto, molti di loro si lamentavano del ritardo con cui avrebbero aperto le bancarelle, su quanto poco la milizia cittadina facesse per tutelare gli interessi dei cittadini e su come gli elfi fossero quasi malsanamente opposti al progresso.
La deviazione della cascata aveva in effetti privato i Boschi Neri di molta dell'acqua necessaria al loro sostentamento, ma la maggior parte della popolazione era ignara dell'accaduto o semplicemente non era interessata al destino dei suoi abitanti.
Le ore passavano e la milizia ancora non si era mostrata, ma un paio di ore dopo il mezzodì l'aria fu riempita da uno strano odore. Alcuni dei presenti lo descrissero poi come “come un odore di pioggia...quando ci sono lampi e fulmini”.
Un potente schiocco risuonò nell'aria, seguito poi da uno scoppio azzurro. Una bolla traslucida apparve a mezz'aria, per poi atterrare tra la folla che, spaventata e sorpresa, si aprì, liberando uno spazio circolare.
A poco a poco, mentre la bolla si andava dissolvendo, al suo interno presero forma una dozzina di figure, tutte avvolte in tuniche di diversi colori. Man mano che esse diventavano più visibili, la tensione tra la gente aumentava e, seppure molti lo avessero già capito, ancora si rifiutavano di crederlo.

Maghi.

Quando la bolla fu sparita, la folla si spinse ancora più in là, aumentando lo spazio tra loro e i nuovi arrivati.
La ragione del timore instillato dai maghi era del resto comprensibile.
Quindici anni prima, una ribellione tra la gente, che gli storici definiscono come “Rivolta dei Pezzenti”, riuscì a soverchiare la magocrazia di Selenia, aiutata da gruppi di avventurieri mercenari e dagli eserciti dagli occhi a mandorla dei regni dell'est di In'jan. In un ultimo, disperato tentativo, Karhioss, l'allora Arcimago e governante, riunì un consiglio di dodici potenti incantatori e condusse un rituale scellerato che squarciò il tessuto stesso della realtà, trasportanto il Palazzo Arcano, la sede del governo e dell'Accademia Arcana chissà dove nell'universo. Le conseguenze furono tremende.
Gli edifici e le case nel raggio di cinquecento metri dal Palazzo vennero schiantate da una poderosa onda d'urto, incenerite da fiamme di un innaturale azzurro o in qualche modo lanciate in aria da una qualche mistica e malvagia energia. Quel giorno i maghi erano definitivamente spariti, il loro disinteresse per le faccende dei cittadini dissolto. Selenia poteva finalmente rinascere e espandersi, come aveva fatto in questi anni.
Ma ora molti, sopratutto tra gli anziani, temevano un ritorno alle origini, e gli stessi giovani, che più e più volte avevano sentito raccontare le storie di quell'epoca buia in cui chiunque non fosse un mago viveva come un mendicante, erano intimoriti.

La bolla era ora dissolta e i dodici erano serrati a cerchio, spalla contro spalla.
“La Traslazione è andata bene, Fratello Archeos, ma credo che le coordinate fossero errate. Questa non sembra affatto la piazza del governo.” disse uno dei maghi rivolto al suo vicino
Dodici paia di occhi scrutavano i dintorni, analizzando ogni dettaglio, indugiando particolarmente sugli elfi incatenati a cerchio.
“Pare che siamo arrivati al momento sbagliato, Fratelli” disse ad alta voce quello che era stato chiamato Archeos “Non ricordo di elfi a Selenia, né tanto meno in atteggiamenti tanto plateali. Quindici anni senza la nostra guida e il popolo si è ridotto a commedianti...sporchi villici”
“Archeos!” disse un terzo in mezzo al gruppo, abbassando il cappuccio “Ti ricordo che siamo qui per parlamentare. Il tuo atteggiamento non aiuterà certo.”
Il mago che aveva parlato sembrava il più anziano tra di loro, non aveva capelli né barba e profonde rughe solcavano il suo viso, come fossi scavati da un'aratro. Questi si distaccò dal gruppo, muovendo qualche passo in direzione del cordone degli elfi. Al suo passaggio gli avventori del mercato si scansavano con furia, spingendo e sgomitando, come se la sola vicinanza potesse essergli letale.
Si venne a creare un canale di vuoto tra i maghi e gli elfi, una figura geometrica così affascinante che, di sicuro, aveva un qualche significato mistico.
L'anziano alzò una mano e sollevò tre dita: “Aken-thos, Popolo dei Boschi” disse “Vi saluto nel nome del Collegio Arcano. Il mio nome è Varimatras”
“Aken-thos a te, Varimatras” rispose un elfo dai lunghi capelli color rame “Ma non ti concedo il beneficio del mio nome. Potresti stregarmi.”
“Non mi importa cosa tu credi di me, elfo. Non ho tempo per mostrarti le mie vere intenzioni. Devo sapere dove è ora la sede del governo.” replicò il mago.
“Perchè lo chiedi proprio a me, umano? Perchè non a uno di loro?” sbottò indicando con il braccio incatenato la folla.
“Perchè loro ci temono, e temo che la nostra sola presenza sia troppo per loro. Voglio evitare il conflitto, così come i miei fratelli. Dobbiamo vedere l'attuale reggente”.
L'elfo annuì, comprensivo, quindi, rivolgendosi a lui in elfico, sussurrò “Nella folla, alcuni sono armati, credo abbiano dei sassi e dei bastoni. Non fategli del male.” Varimatras fece segno di comprendere. “E portatemi con voi. Ho anche io delle faccende da discutere col reggente. Vi guiderò fino al palazzo e cercherò di farvi da garante in città.”
“Tu? Non credo che il primo incontrato possa essere un buon pacere, senza offesa ovviamente” ridacchiò Varimatras.
L'elfo fece un mezzo sorriso e fece scattare il polso. Con un sonoro “click” una delle manette si aprì, permettendogli di liberare l'altra mano. Fece due passi indietro e recuperò uno zaino e vari oggetti gettati lì in terra, tra cui un liuto. “La gente apprezza la mia musica. Sono conosciuto e ben accetto in città. Non ho ancora ben chiare le vostre intenzioni ma sento di potermi fidare di te Varimatras. Il mio nome è Varael, ma la gente mi conosce come Sussurro”

I due si guardarono per qualche istante, mentre la piazza si faceva sempre più silenziosa. Poi, lentamente, Varimatras e Sussurro si riunirono agli altri maghi, e il piccolo corteo iniziò a marciare a passo svelto verso Piazza dell'Oro, la sede del Palazzo Imperiale.