Racconto di fate sul cemento (5)

Author: Matteo Piovanelli / Etichette:

Gecko


Max. Max quella notte era andato a dormire con un'arrabbiatura col mondo da doposbronza, senza essersi neppure sbronzato propriamente. Poi, era tardi, ma un po' di luce superava incolume le vecchie veneziane scrostate della camera. La fatica che non aveva fatto ad addormentarsi, sentendosi ad un certo punto colpito come da un pugno allo stomaco, ma dall'interno, fatto d'aria ed un senso di colpa immotivato. Che cazzo.

Dopo troppo poco, il caldo. Estate di merda, che si fottesse con chi aveva deciso di accoppiarla con l'asfalto e l'umido. Via le lenzuola, scalciate in fondo al letto, ma ancora niente. Fu costretto ad aprire gli occhi. Gli spiragli che davano fuori gli dissero che non era più notte, ma neppure era giorno. Che odio quell'ora, quando tutto si sveglia e tu vorresti chiuderti profondo dentro la tua testa e gridare contro quell'emicrania che senti incombere, eh, Max?
E poi, ad un tratto, il freddo. Intenso, da far gelare il fiato. Eppure non tagliava come il vento invernale, da cui nessuna sciarpa era mai sufficiente a nasconderlo. Era solo. Quasi un rumore, o forse l'ombra di un movimento al limitare del campo visivo, attrasse il suo sguardo al soffitto. Lui era lì, e gli sorrideva velenoso con gli occhi malvagi.
“Ciao ragazzino.”
Questa volta un gecko. Non più il buon vecchio serpente, ormai tristemente familiare. Se ne stava lì piccino picciò appeso al soffitto, che sembrava l'avessero disegnato lì, non fosse che era davvero troppo realistico. Si riusciva a vedere il tipico viscidume del rettile.
“Ho una piccola curiosità per te: se potessi essere appeso per tutta la mia pelle, sarei lungo dieci metri.”
Il ragazzo di limitò a deglutire, come qualche anno prima, come qualche giorno prima. Era diverso, ma era indiscutibilmente lui.
“Ho anche una notizia: i debiti si pagano. E tu mi dovevi un pegno. Ma sono stato clemente, e non ti ho chiesto nulla. Hai fatto di testa tua, mi hai deluso. E avresti dovuto pagare. Ma sai che cosa abbiamo fatto?”
“Non lo so.”
“No, non lo sai mai, inutile moccioso. Abbiamo fatto pagare a chi di vita ne aveva più di te da perdere. Voglio solo che tu sappia chiaramente che è colpa tua, della tua pretesa che niente cambiasse. Adesso dormi verme.”

Il sole era alto dietro alle nuvole e allo smog colorato. Non l'aveva strappato ai suoi sogni neri. Era stato il clamore del traffico davanti alla facciata di casa sua. L'inutile clang clang degli ingranaggi della società che andavano al loro posto sempre uguali, sempre stupidi, senza capire, senza sapere niente della macchina che facevano trascinare stanca a mangiare sé stessa.
Erano sogni? Oppure no? Fissando il soffitto sapeva dove erano state incollate le zampe della bestia, ma voleva credere che fosse successo tutto nel mondo della sua testa, come aveva voluto crederlo le altre volte.
Si tirò seduto sul bordo del letto. Mentre lasciava che i suoi piedi cercassero le ciabatte, passò il tempo a grattarsi la pancia sudata, cercando di convincersi ad alzarsi del tutto. Passando davanti al bagno ebbe l'impulso di lavarsi i denti: non ne valeva la pena, decise. Scese per fare una tarda colazione, o pranzo, o merenda, o qualunque cosa comportasse riempirsi lo stomaco. Quel pugno interiore della sera era ancora al suo posto che batteva e batteva.
Sentì sua madre che piangeva in salotto: probabilmente la stupida era sul divano che guardava qualche soap opera idiota importata dal sudamerica. E invece:
“Max, Chad, tuo cugino, è all'ospedale. L'ha investito una macchina sta notte.”

Con quanta intensità si può arrivare a maledire sé stessi? Bestemmiando, i pezzi del puzzle cadevano al loro posto. Ogni pezzo che si incastrava, un taglio profondo per Max.
Il serpente.
Un taglio.
Marlene.
Un taglio.
Le fate.
Un taglio.
Chad.
Un taglio.
Il sogno.
Un taglio.
Sua madre.
Un taglio.

Mentre contava i pezzi della sua anima rimastigli fortuitamente tra le mani, ecco Max davanti al Jourdan, l'ospedale dove c'era il pronto intervento chirurgico. Quel pomeriggio non lo fecero entrare a vedere suo cugino, che era ancora in terapia intensiva dopo l'operazione d'emergenza della notte. Merda.

Riuscì solo due giorni dopo a raggiungere la sua camera. Non lo volevano fare entrare, bollandolo come un altro della processione di tifosi all'ospedale, ma aveva avuto rapporti professionali con alcuni degli infermieri, che lo riconobbero. Contando i minuti dal primo tentativo fino a quando arrivò alla porta della stanza, aveva immaginato ucronici passati alternativi in cui fosse riuscito a non fottere la sua vita, sbattendo ogni volta la faccia contro il muro rappresentato dal presente. Se si avesse avuto davanti, si sarebbe preso a sberle forte, fino a farsi bruciare le mani.
Chad, cazzo, sorrideva. Max era diviso tra gli impulsi di prenderlo a pugni, piangere, e buttarsi dalla finestra, così stava immobile a guardarlo dalla porta, con gli occhi puntati sulla maglietta che chiedeva a caratteri cubitali “Ask me about your mom.”
“Ciao cugino.”
“Cazzo è successo?”
“Eh, lei era così bella.”
“Che cazzo stai dicendo?”
“La ragazza. Mi han detto che si è lussata una spalla, poveretta.”
“Pezzo di deficiente, tu ti sei spezzato tutte e due le gambe e ti preoccupi della troia che ti ha investito?”
“No, non dico lei. Il tizio che guidava è morto quando sono arrivati i paramedici. Poveretto.”
“Meglio così. Se l'è meritato.”
“Non dire così. Nessuno merita una morte del genere.”
“Fanculo... Te piuttosto?”
“Sono innamorato.”
Max si limitò a fissarlo in silenzio. Cos'era quella rabbia che sentiva e non riusciva a deglutire? Era venuto a vedere come stava il cugino, soffocato dai sensi di colpa, ed ora se la pigliava con lui? Ma la sua calma non poteva non dargli al cazzo...
“Ora va meglio. Prima faceva un mal fottuto, ma poi un infermiere gentile mi ha drogato e ora non sento più niente. Spero non mi cominci a prudere il ginocchio, se no con ste ingessature divento scemo.”
“Idiota. È colpa mia.”
“Ecco mio cugino: pronto a dichiararsi responsabile di ogni male del mondo, dal buco dell'ozono alla televisione. Ti sei ripreso dall'altra sera? Eri piuttosto giù...”
“No, ascolta, devi ascoltarmi.”
Max si avvicinò in un solo passo al capezzale: non sopportava più il sorriso di Chad.
“Di qui non mi muovo, cugino.”
“Sono serio, guardami. Ti parlo seriamente, o sono completamente pazzo. Probabilmente è così. C'era il serpente, che mi ha chiesto di uccidere Marlene, e Joshua, e quelli. E io ho accettato, tipo. Ho preso la spada e l'armatura, e giovedì sera sono andato al parco. Ma non ce l'ho fatta. E c'erano le fate. È colpa loro. Sono loro che mi hanno fermato. Tutti i colori, non il nero. E ieri è tornato il serpente, solo che era un gecko, e mi ha detto che era deluso. E che dovevo pagare, ma avrebbe pagato chi aveva più da perdere, al mio posto. Capisci?”
Da qualche parte nel discorso erano scese delle lacrime, e ora il ragazzo si reggeva la faccia, cercando di ignorarle. Oltre il suo sguardo annebbiato vedeva Chad che non sorrideva più.
“Cugino, sono preoccupato per te. Seriamente. Che storia è questa? Che cazzo stai dicendo?”
“Ho ancora la spada sotto al letto. Non l'ho più toccata. Non mi sono neanche osato di guardarla.”
“Per favore, Max, vai via e cerca di tranquillizzarti un poco prima di tornare.”
E Chad era serio quando lo diceva.

In corridoio incrociò una ragazza col braccio appeso al collo. Lei lo vide e gli sorrise. Gli pareva di averla già vista da qualche parte. La odiava: sapeva che appena non l'avesse potuta sentire avrebbe riso di lui.

1 commenti:

la zuppa ha detto...

my dear max!