Conrad il druido - 3

Author: Jager_Master / Etichette: , ,

Camminava in silenzio a testa china, tirando a se il cinghiale strisciandolo sull’erba rada del sentiero. Ogni tanto chek ne odorava il corpo, sentendo il richiamo della carcassa dell’animale: aveva fame, ma per nulla ragione al mondo avrebbe toccato quel cinghiale davanti al suo padrone, e nemmeno lontano da esso. Piuttosto la morte.
L’ubbidienza era il suo miglior pregio, assieme alla fedeltà e alla forza; in effetti era un lupo veramente speciale, come pochi su questa terra. Era uno splendido animale dal pelo folto e morbido, cosa strana per una bestia selvatica, ma sembrava che nessun ostacolo, nessuna lotta, nessuna caduta potesse rovinargli quel manto meraviglioso.
Più di un cacciatore aveva adocchiato Chek nei periodi in cui Conrad col suo fedele compagno sostava in zone abitate. E più di un cacciatore lo aveva notato anche nelle terre selvagge: in fondo non era poi difficile, dato che Chek misurava quasi 2 metri di lunghezza e pesava poco più di 300 libre.
Aveva le orecchie a punta, che terminavano con un sottile ciuffo bianco, proprio in cima e un manto completamente fulvo, quasi rosso. Un colore particolare, ma che aveva avuto la sua importanza quando Conrad aveva fatto la sua scelta fra i lupi:aveva indicato Chek senza indugio, quella notte. Massa di muscoli e potenza, occhi verde muschio; l’intelligenza che sprigionava, poi, era quasi cosa viva. Quel lupo spuntava dal branco come un albero secolare immenso può sbucare dalla boscaglia. La scelta fu rapida e ovvia, e da quel giorno Chek calcava le orme del suo padrone giorno e notte.
Lo rispettava e lo temeva allo stesso tempo, ma col passare degli anni questo timore aveva lasciato posto ad un affetto profondo che valicava ogni sentimento di sola fedeltà; ora niente e nessuno avrebbe mai spezzato il loro rapporto.

Conrad, quasi a sentire il sentimento di Chek si voltò senza smettere di camminare, e i due si guardarono negli occhi profondi per qualche istante.
Non fu necessario dire alcunché, bastò quella rapida occhiata. Chek con un balzo rapidissimo si fiondò fuori dal sentiero e cominciò a correre a perdifiato nella foresta.
Conrad tornò a guardare la strada, sempre immerso nei suoi pensieri, sempre tirando a se quel pesante cadavere, pesante più per la mente che per il braccio. Continuò a camminare, ormai il paese era ad un’ora di cammino, e rallentò anche il passo.
Chek nel frattempo era una freccia nella boscaglia, evitava rami e arbusti come acqua fra le rocce, balzava fra gli alberi e inalava più odori che poteva. Sbuffava moltissimo ma non era sudato: avrebbe potuto correre per una giornata intera sudando solo al crepuscolo, ma sbuffava perché a lui interessava percepire quel preciso odore.
Che presto arrivò: come una freccia, gli si conficcò nel naso,e in quel preciso istante bloccò le zampe dove si trovava, accucciandosi col muso a terra.
Sbuffava ancora, questa volta più piano, le orecchie tese, e i muscoli pulsanti.
Era davanti a lui, a una trentina di metri, leggermente sulla destra. Non lo poteva vedere perché nascosto dall’erba alta, ma sapeva che era lì. L’odore era talmente forte da dare il mal di testa e quasi ne vedeva la sagoma disegnata nella sua mente.
Si spostò di qualche metro alla sua destra, indietreggiando per trovare riparo da un cespuglio in fiore, e si mise dietro ad esso. Poi cominciò anche a salivare: era pronto.
Durò tutto pochi istanti, il tempo di scattare per 20 metri: il cervo notò una macchia rosso scuro con la coda dell’occhio, ma fu l’ultima cosa che vide, poi una mascella di mezzo metro d’apertura gli si chiuse attorno al collo , e lo spezzò con un colpo secco.
Dall’altra parte del bosco Conrad sorrise amaro.
Mangiò, Chek, mangiò tutto, senza lasciare quasi nulla, come era nel rispetto della natura che Conrad voleva. Anzi: pretendeva.
Oltre a non sprecare nulla tutto ciò serviva anche per placare la fame per qualche giorno, evitando di lasciare il padrone troppo spesso per andare a caccia. E a Chek non piaceva lasciare Conrad. Voleva stare con lui, ogni istante, anche se spesso il richiamo della fame e della natura era impellente e non poteva essere rimandato.
Quando finì l’ultimo boccone Chek si concesse qualche minuto per leccarsi le zampe e pulirsi la bocca: detestava avere rimasugli delle prede addosso e adorava il proprio mantello come lo adoravano tutti i cacciatori che lo avevano visto almeno una volta.
E qualcuno di questi, a dire la verità, ci aveva provato a toccare quel mantello, prima ovviamente, di perdere la mano e subito dopo la vita.
Sia Conrad che Chek amavano il mondo e tutto ciò che esso donava. Tranne la malvagità dell’uomo. E il cacciatore in se ne incarnava lo spirito perfettamente: cacciava e sprecava il dono della natura solo per una pelle da rivendere al mercato, o per avere un paio corna o ancora per puro e stupido spirito di competizione.

Quella volta che un cacciatore aveva colpito Chek era ancora ben chiaro nella mente di entrambi. Chek stava consumando il suo pasto, e a qualche miglio di distanza Conrad sceglieva alcune erbe in una vasta radura, posandole delicatamente nel suo sacco. Ogni volta che Chek cacciava, il suo padrone non era mai presente: preferiva non vedere nulla, e si trovava qualche occupazione temporanea.
La freccia partì, la mano forte e decisa che teneva l’arco aveva avuto tutto il tempo per prendere la mira, e la punta di ferro si conficcò nella spalla di Chek. Il lupo urlò.
Conrad sentì quel grido come un lampo nella sua mente e si prese con le mani la testa: capì subito cosa era successo, si alzò e osservò l’orizzonte teso e attento, gli occhi puntati là dove la sua metà era stata colpita.
All’orizzonte stava Chek, dolorante e con una freccia infilata nel suo bel mantello.
La mano che teneva l’arco non aveva perso tempo e stava già incoccando una nuova freccia.
Chek, preso alla sprovvista, capì di essere stato stupido, e di aver abbassato la guardia come uno sciocco cucciolo. Osservò il punto da cui era partita la freccia e vide l’uomo praticamente subito: i contorni della sagoma che non poteva vedere venivano completati dal suo odorato.
Si lanciò nella corsa, a testa bassa saltando massi e cunette che intralciavano l’andatura. La seconda freccia partì, rapida e precisa come la prima, e si infilò subito sotto quella precedente, all’intaccatura del garrese.
Ma Chek nemmeno la sentì. Era tale e tanta la rabbia in corpo che ne avrebbe sopportate altre quattro almeno.
A un paio di metri dal bersaglio vide la mano del cacciatore cercare l’impugnatura di qualcosa nella cinta. Ma poteva farci granchè. Sapeva che una lama nella mano di un combattente esperto era peggio che venti frecce, ma ormai era lanciato e non gli importava di nulla, solo della gola del cacciatore.
Era questione di rapidità: il primo che avrebbe colpito avrebbe ucciso l’altro. E chek aveva un secondo nome: velocità.
La mano del cacciatore non uscì nemmeno dalla cintura: la massa fulva lo investì, l’impeto e la forza di un cavallo da guerra. Fu catapultato all’indietro e cadde. Ma parte della sua gola rimase fra le fauci di Chek, che ora lo osservava immobile, con quei profondi occhi verdi.
A qualche miglio di distanza Conrad riprese a respirare.

Ma in quei giorni Chek era ancora un lupo inesperto, per quando potente e forte nella sua giovinezza. In questi due anni, invece, aveva imparato molto dal suo padrone, molto più di quello che un lupo impara in un’intera vita.
Abbandonato il cervo raggiunse in fretta Conrad, che non si voltò. Riprese a camminare a passo deciso e Chek con lui.
Liskam era davanti a loro, in fondo alla collina.

Entrò in paese, scuro in volto e silenzioso. Nei suoi occhi brillava la forza e la determinazione degli orchi, e dovette reprimere il desiderio di prendere a botte e disintegrare quegli zotici villici che lo stavano accogliendo al suo ingresso in paese.
Accogliendo, poi, era una parola grossa; diciamo che lo stavano aspettando sulla soglia delle loro patetiche casupole sorridendo alla vista del grosso cinghiale che si stava trascinando dietro.
Arrivò in piazza e depose il corpo su un mucchio di assi, proprio a fianco della fontana. Chek, intanto gli stava a pochi metri e si accucciò seduto osservando le facce della gente intorno.
“Ecco qui” disse Conrad. “La promessa è stata mantenuta, ora mantenete la vostra”.
“Aspetta un attimo, druido”.
Conrad si voltò alla sua sinistra, sapeva di chi era quella voce. Davanti a lui vide uscire dalla folla che si era radunata in piazza un uomo di media statura.
Era Mistier, il capo del villaggio. Valente guerriero, e crudele nel suo farsi rispettare in paese, era l’unico a cui Condar avrebbe lasciato l’opportunità di ribattere. Nonostante fosse un uomo spregevole, il druido sapeva che i capi villaggio erano persone carismatiche, alle quali era meglio lasciare la parola. A un loro cenno tutto il paese lo avrebbe seguito, in vita o in morte.
E dunque non si adirò e nemmeno si stupì quando Mistier prese ancora parola, e lisciandosi la pelata disse: “Come facciamo sapere che quella bestia è quella che stavamo cercando?”
Conrad spostò gli occhi dal capo villaggio ed osservò ancora il maiale selvatico.
Dopo qualche istante incrociò nuovamente gli occhi dell’uomo e rispose: “Quanti cinghiali di due metri hai mai visto da queste parti, uomo? Quanti cinghiali oltre a questo sono in grado di distruggere un raccolto nel giro di una notte? È quello che cercavi”.
L’uomo non rispose e osservò la bestia. Poi ancora il druido. Non era convinto.
“Con la morte di questo animale hai avuto la tua....giustizia, Mistier. Ora torna al tuo lavoro e non abusare della mia pazienza”. Conrad stava perdendo le staffe davanti a tanta cocciutaggine, e aveva fretta di recarsi al consiglio dei druidi; aveva perso fin troppo tempo con questa gente.
“E va bene, orco” disse Mistier.
Conrad notò il tono con cui disse la parola “orco”. Ma sapeva bene che era per provocarlo, e d’altra parte essere mezzo orco era la sua natura e di questa andava fiero. Dunque si fece scivolare addosso la provocazione e ascoltò ancora l’uomo.
“Smetteremo di cacciare i cinghiali, ma ascolta le mie parole: se fra qualche tempo troveremo ancora il nostro raccolto rovinato, torneremo ad imbracciare gli archi. E non ci saranno Druidi sui nostri passi: avremo la nostra giustizia, che la natura lo voglia oppure no”.
Chek ringhiò di disappunto, ma Conrad con la coda dell’occhio lo zittì. In questo momento non aveva senso discutere con quell’uomo, tanto più che era sicuro che il cadavere di quella bestia era la soluzione giusta ai problemi del villaggio. Non avrebbero più avuto problemi con i cinghiali per qualche tempo. Sarebbe andato al consiglio e sarebbe tornato prima che qualche altra bestia potesse dar “disturbo” al paese. E avrebbe potuto gestire la situazione con più calma.
“Terrò a mente le tue parole, Mistier. Ma ascolta le mie” disse infine Conrad. “Fra poche lune sarò di ritorno, e da quel che accadrà al consiglio dipenderà la sorte di te e del tuo villaggio. E non solo. Cerca nel frattempo di non abusare della natura, o essa si ritorcerà su di te, e non ci sarà volontà di uomo, né arco che tenga”.
Mistier fu visibilmente colpito dalla frase che il druido gli aveva riversato contro utilizzando le sue stesse parole. E non disse più nulla.
Conrad di fece strada fra la folla, riempì il suo otre di acqua alla fontana e si diresse verso la strada che conduceva fuori dal villaggio, e da lì alla foresta.
Pochi metri dopo si fermò, nel naso ancora l’odore di morte del cinghiale, nelle orecchie la fastidiosa voce del capo villaggio. Doveva reprimere la rabbia, ma una frase uscì lo stesso dalla sua bocca: “Voi uomini non rispettate nulla di quello che avete attorno: sfasciate, tagliate, recidete senza pietà. Non piantate alberi al posto di quelli che abbattete. Uccidete per puro spirito competitivo e ferite a morte col vostro ferro ogni essere di questa foresta. Ma questa era deve finire, questo spirito immondo deve lasciare i vostri cuori e il vostro braccio deve posare la spada”.
Ora tutti lo guardavano. Un silenzio regnava nella piazza, solo la voce del druido riempiva l’aria. Conrad alzò il tono di voce: ”questo tempo è finito. E con essa la pazienza di questi boschi!”.
Alle sua parole una intensa brezza fredda frustò i volti delle persone in paese, e gli alberi furono scossi dallo stesso vento. Alcune foglie caddero, alcuni rami secchi furono portati via. La sabbia della piazza si alzò in piccoli vortici.
“Vi ho avvertito uomini. Tornate alla natura e vivete in essa. O essa verrà in voi, riversando anni di soprusi e oppressioni sulle vostre stupide case. Voi non sapete. Voi non conoscete cosa vuol dire rabbia".
Detto questo riprese il cammino puntando alla collina. In cima ad essa, seduto e fedele, lo aspettava Chek.

4 commenti:

Jager_Master ha detto...

Pensavo ad una settimana di lavoro. Ma poi i tasti andavano da soli, e in una notte....voilà.
Spero piaccia...soprattutto a Bovaz. Aspetto consigli e critiche.

E cmq voglio un lupo. Adesso.

Matteo Piovanelli ha detto...

Gran bel lavoro Barf. Mi piace eccome.

Jager_Master ha detto...

se non vi spiace mi prendo anche il capitolo 4. L'ho già iniziato, solo non volevo postare una roba troppo lunga.
Ok?

Matteo Piovanelli ha detto...

io non ho nulla in contrario, tanto sono impegnato con il capitolo tre di esper