UNO

Author: Jager_Master / Etichette:

Capitolo....uno...

Si svegliò di soprassalto issandosi a sedere. Si guardò attorno ma il buio copriva in modo totale ogni cosa attorno al suo naso e non riuscì a vedere nulla di nulla.
Sentì freddo ai piedi, anche perché erano scoperti. Eppure la finestra era chiusa e l’aria nella stanza tiepida. Si sentiva geloni in ogni punto del corpo ed era tutto sudato.
Si alzò dal letto e si passò la mano sulla fronte madida di sudore. Ci mancava la febbre.
Tastando la fronte con il palmo della mano sentì calore, ma non così tanto da indurre a pensare a febbre e influenza. Probabilmente era dovuto al sonno cattivo.
Restò qualche istante seduto sul letto, coi piedi a terra, ripensando all’incubo che lo aveva svegliato qualche istante prima. Sentiva una voce che urlava: “solo, solo! Aiuto” Era sicuro che quella voce era la sua. Ma non riusciva a vedersi e nel sogno non poteva voltarsi, mentre correva a perdifiato per una strada vuota. Correva e stava fermo nello stesso tempo. Come in tutti gli incubi: scappi veloce come il vento, più che puoi, ma non ti muovi più di tanto da dove sei.
E poi si era svegliato.
Passò la mano alla sua sinistra cercando l’interruttore. Lo trovò provò il clic più e più volte. Nessuna luce si diffuse nella stanza. Maledette lampade e basso consumo.
Si alzò nel buio completo e fece qualche passo attraversando in obliquo la stanza, evitando accuratamente il tavolo invisibile al centro della stessa. Tanto conosceva quella stanza (come del resto tutta la casa) a memoria, angolo per angolo: dopo 20 anni vissuti sempre lì...alla fine aveva imparato a muoversi a menadito, anche al buio.
In effetti non era la prima volta che la corrente saltava. Un paio di volte all’anno, a causa di sbalzi, si ritrovava al buio anche per tutta la giornata.
Con passo sicuro arrivò ad una credenza dall’altra parte della camera, aprì lo sportello centrale e frugò a fondo nei due ripiani all’interno.
Trovò quello che cercava, poi si voltò, rifece il percorso al contrario passando il tavolo, questa volta da sinistra, e si diresse ai piedi del letto.
Aprì la cassapanca e ne tirò fuori un paio di coperte depositandole a terra. Si inginocchiò e tastò il fondo. Urtò un pacchetto di candele che rotolarono, spargendosi nella cassapanca. Imprecò e ne prese una.
Poi con i fiammiferi presi dalla credenza l’accese. Dopo qualche secondo di incertezza la luce divampò qualche metro attorno a lui.
Rimase un istante a contemplare la stanza. Poi rimise le candele in ordine come erano prima, accatastò le coperte nella cassapanca e chiuse con la chiavetta.
Si alzò e andò alla finestra per controllare che fosse chiusa. Lo era.
Poi andò al comodino, posò delicatamente la candela e aprì il cassetto.
Estrasse il vecchio cipollone e ne osservò le lancette. Segnava le 04:42.
Si lisciò la vecchia barba bianca, e rimase un momento a riflettere. Sapeva di doversi calmare un secondo prima di rimettersi a dormire. Non poteva addormentarsi, agitato com’era dopo quell’incubo.
Ci ripensò: era incredibile come una cosa indefinita, una paura informe, potesse tormentare tanto il sonno da farti sudare come un boscaiolo. In fondo non sapeva nemmeno da cosa scappava, perché, dove....eppure alla sua mente tanto bastava. Misteri dei sogni e dell’inconscio, si disse.
Rifletté sulla giornata che lo aspettava.
Fra meno di due ore si sarebbe alzato come tutte le mattine, avrebbe acceso il suo vecchio Suzuki e sarebbe sceso in città a prendere il giornale, il pane e un’accetta nuova.
Rimise i piedi al caldo sotto le coperte, e fece per rimettersi a dormire: a questo punto il cuore si era calmato e poteva provare a riaddormentarsi.
Prese il cipollone, aprì il cassetto, e si fermò.
Tenendo l’orologio in mano osservò ancora le lancette: 04:42.
Merda, si è fermato. Girò la rotellina più e più volte, ma le lancette rimasero immobili, impassibili.
Lasciò cadere con uno sbuffo l’orologio nel cassetto e si alzò di scatto.
Si mise la vestaglia e andò verso la finestra.
Spalancò la persiana, e la valle davanti a se si aprì in un’alba tenue e rossastra. Il cielo era un misto di rosso e grigio e l’aria della prima fredda primavera inondò la sua faccia.
Chiuse la finestra lasciando le persiane aperte.
Andò alla porta e aprì il vecchio catenaccio.
Uscì stringendo a se la vestaglia sbuffando aria fredda dalla bocca. Andò verso il garage, le vecchie scarpe facevano rumore sotto i piedi spaccando le piccole lastre di ghiaccio che si erano formate nella notte.
Dal 1972 non si vedeva una primavera così fredda e tardiva: era il 20 marzo e ancora da giorni, durante la notte, la temperatura finiva sottozero.
Aprì in modo deciso la porta del garage, e poi la portiera del suo Suzuki.
Girò il quadrante inserendo la chiave: l’orologio del display mostrava le 04:43. Tenendo conto che un minimo di disparità poteva esserci, i due orologi si erano bloccati pressoché nello stesso momento.
Richiuse lo sportello e tornò in casa, cercando di capire come poteva risalire all’ora esatta. Ma alla fine si convinse che in fondo non era così importante. Si vestì velocemente e ritornò fuori.
Chiuse dietro di se la porta di casa, e con le chiavi del Suzuki in mano andò al garage.
Sulle spalle portò lo zaino in pelle che usava per le escursioni e dentro di esso portafoglio e poco altro.
Accese il motore portando fuori il furgoncino.
Scese a chiudere il garage e tornò nell’abitacolo. Mentre aspettava che il motore prendesse calore, rimase a riflettere sulla storia dell’orologio. Di fronte a se la strada che portava al paese, il cielo ormai aperto nell’azzurro della prima mattina.
A occhio e croce, valutò, dovevano essere le 6 di mattina. Forse anche le 6 e mezza.
Inserì deciso la marcia e scese lentamente dalla collina, lasciando la baita dietro di se.
Se avesse saputo che non ci sarebbe più tornato si sarebbe soffermato ancora un pò ad osservarla. Ma il vecchio Carlo non lo sapeva, e ignaro scese lungo la sterrata fischiettando un motivetto stupido.
Arrivò, dopo una buona mezz’ora, sulla statale che portava a Bressanone. Mise la freccia e si buttò in carreggiate dirigendosi dalla parte opposta rispetto al capoluogo.
Chiusa era un paese a un paio di chilometri e già pregustava il cornetto caldo, sfogliando il giornale. Il bar di Dino era speciale, e lui raramente rimaneva in baita per un paio di giorni senza scendere al bar. Colazione e qualche parola con i clienti (ormai li conosceva praticamente tutti) era una cosa che lo metteva sempre di buonumore. Era un vecchio solitario, ma amava confrontarsi con la gente, sentire le novità, e naturalmente mangiare i meravigliosi cornetti di Dino.
Continuava a chiamarli cornetti, perché quel maledetto nome francese non gli entrava in testa, e nemmeno gli piaceva.
Passò circa un chilometro senza che nessuna macchina lo incrociasse dalla parte opposta o lo superasse. Sembrava che la gente non si fosse ancora svegliata. Era forse domenica? Ci pensò non più di mezzo secondo: era giovedì. Ne era sicuro.
Arrivò al Bar di Dino in pochi minuti e scese. Un paio di macchine erano parcheggiate davanti all’entrata. Una moto Enduro, invece, era appoggiata direttamente al muro del bar.
Si diresse alla porta d’entrata, ma dopo qualche passo si fermò: rimase almeno un minuto fermo, realizzando ciò che fino a quel momento non aveva notato.
Intorno a lui c’era solo silenzio, neanche una voce, neanche il rumore di una macchina o di un trattore. Non un macchinario che ronzava, non un bambino che schiamazzava, non una donna che rideva.
A passo lento arrivò alla porta del locale: attraverso il vetro vide chiaramente che nessuno stava seduto ai tavoli. Eppure fuori le macchine erano parcheggiate.
Entrò facendo suonare la campanella sulla porta e richiudendola deciso le fece fare lo stesso rumore.
“C’è nessuno?” chiamò.
Non una voce rispose.
Passò lo sguardo sopra ogni tavolo e sul bancone. Tazza sparse, qualcuna usata, altre no. La “gazzetta dello sport” era aperta sul bancone principale, e qualche foglio della stessa era sparso per terra. A parte qualche oggetto sparso (segno che qualcuno era stato qui) il bar era pressoché in ordine, e la macchinetta mangiasoldi era in funzione con i neon e i tasti luccicanti che brillavano.
Il riscaldamento era in funzione, e la radio accesa a basso volume.
La teca con i cornetti era ancora vuota, segno che i cornetti non erano ancora pronti, pensò.
Mosse qualche passo nel locale e a voce ancora più forte chiamò: “Dinoooo!”
Niente.
“Ma dove cazzo siete andanti tutti?”
Uscì più arrabbiato che mai, dirigendosi verso il retro del locale. Nel cortile vide scatoloni dei fornitori e il furgone di Dino. Se era ancora parcheggiato lì, vuol dire che il proprietario era ancora nei dintorni.
Chiamò ancora Dino urlando nel parcheggio, ma per la terza volta nessuno rispose.
Si diresse verso la strada, ma nessuna macchina passò.
Cominciò a battergli il cuore sempre più forte e la salivazione salì alle stelle. Corse verso la casa a fianco del bar.
Bussò forte alla porta, immaginandosi la faccia del padrone di casa che si sarebbe visto un vecchio pazzo con la barba bianca urlargli scemenze in faccia alle 6 del mattino.
Mentalmente si preparò le scuse e la domanda da fare: “sa dirmi dove sono andati tutti? Al bar non c’è nessuno.”
Ma nessuno aprì e nemmeno nella casa a fianco.
Attraversò rapidissimo il cortile per provare con la casa di fronte. Bussò alla porta e questa si aprì: era semplicemente accostata.
Non si mosse di molto, per non essere invadente, ma avanzò di qualche metro, giusto per arrivare nell’atrio. Non vedeva ne sentiva nessuno.
“salve....scusi....volevo un’infomazione....” chiese, nella speranza che qualcuno rispondesse con un “arrivo” o anche con “e lei chi è?”.
Ma nessuno, ancora una volta, rispose.
Uscì, non volendo salire di piano nella casa, si sarebbe sentito estremamente a disagio: se ci fosse stato qualcuno a dormire? Cosa gli avrebbe detto? “Scusate ho trovato aperto e sono entrato?”
Una volta fuori nel parcheggio ruotò di 360° su se stesso, e chiamò a gran voce “c’è nessunooo?”
Ma l’unica cosa che sentì era vento, e aria fresca. Nessuna macchina in lontananza, nessun segno di vita.
Andò verso il suzuki, e si fermò appoggiato al cofano.
Rimase lì, immobile, sconvolto da tanta chiara certezza. Da tanta crudele e spaventosa realtà.
Lo sguardo d’insieme che lanciò attorno a se disegnò nella sua mente la triste e incredibile situazione.
Non poteva credere di essersi trovato in questa condizione, non sapeva che fare, dove andare, chi cercare.
Restò qualche minuto a vagare con la mente in ogni posto e in nessun luogo. Infine si mise a piangere. Perché c’era poco da capire.
Era solo.

6 commenti:

Jager_Master ha detto...

credo che si presti a diverse strade, a diverse interpretazioni. anche perchè la mia idea si ferma qui. in fondo perchè una delle mie paure è quella, di punto in bianco, di trovarmi solo.
Uno, appunto.
Poi che fare, che dire, come cavarmela...non so. E sinceramente non ci ho ancora pensato.
Per ora ecco la "Mia paura", vediam come me la risolvete...

Matteo Piovanelli ha detto...

figo barf
non tu, naturalmente, ma bel post.
stai ancora leggendo King, vero?

alan ha detto...

..hai scritto 'i Langolieri'. anche se immagino tu non possa saperlo ^_^! molto carina l'idea, appartiene decisamente agli spunti che ritengo molto affascinanti! ci sono un paio di piccole incongr tecniche, ma nulla di che. mi fa specie che si siano fermati gli orologi ma non le macchine nè il ciclo del sole.. mm..

Jager_Master ha detto...

1) so qualcosa dei langolieri ma (sinceramente) non ci avevo fatto caso. può essere che mi abbiano ispirato. e king di conseguenza.

2)le incongruenze (mi fa piacere che le avete notate) sono volute. non c'erano nella "versione iniziale" ma le ho aggiunte perchè il racconto si prestasse a più collegamenti, a più idee. in fondo non ho quasi detto nulla, è come una porta aperta. adesso bisogna trovare una motivazione agli orologi, e alla solitudine. e al clima che...non varia. o almeno sembra....

Matteo Piovanelli ha detto...

l'incongruenza tra orologi-fermati e resto-della -tecnologia-che-funziona mi pare facilmetnte superabile con una spiegazione cervellotica e pseudo relativistica, che eviterò ora

Jager_Master ha detto...

anche perchè non sai nemmeno cosa hai detto. ma non preoccuparti. basta far capire che gli orologi funzionano...perché si.